Licenziamenti economici: per la reintegra non serve che l’illegittimità sia “manifesta”
Lo ha stabilito la Corte Costituzionale depennando dal comma 7 dell’articolo 18 dello statuto dei lavoratori, così come modificato dalla Riforma Fornero, il carattere «manifesto» dell’insussistenza del fatto alla base del recesso per motivi oggettivi.
La Consulta torna ancora una volta sull’articolo 18 così come riformulato dalla Legge Fornero. Solo ad aprile dello scorso anno si era pronunciata con una sentenza interpretativa che aveva imposto al giudice di ordinare la reintegra e (non più «o») la misura indennitaria in caso di accertato licenziamento illegittimo per ingiustificato motivo oggettivo (sent. 58/2021). Anche stavolta, con la sentenza n. 125 depositata il 19 maggio 2022, a cadere sotto la scure del giudizio di incostituzionalità è lo stesso comma nella parte in cui impone al lavoratore di provare il carattere manifesto dell’insussistenza del fatto ai fini della reintegrazione.
Una probatio diabolica che contrasta con il principio di ragionevolezza, desumibile dall’art. 3 della Costituzione quale sinonimo di uguaglianza sostanziale al fine di limitare le scelte arbitrarie del legislatore. Si pensi, infatti, a quanto le ragioni economiche, produttive o organizzative alla base di questa tipologia di licenziamento siano difficili da verificare processualmente. Rese ancora più difficili dal provare il carattere «manifesto» dell’insussistenza del fatto che, da una parte, delinea un assetto «marcatamente ed ingiustificatamente sbilanciato in favore del datore di lavoro e, di contro, ingiustificatamente penalizzante per il lavoratore» e dall’altro rimette il giudizio alla scelta totalmente discrezionale del giudice.
Licenziamenti Economici
Nel licenziamento per giustificativo motivo oggettivo connesso a ragioni economiche, produttive e organizzative lo statuto dei lavoratori appresta, a seconda delle dimensioni dell’azienda diverse tutele. Quando sia manifesta l’insussistenza del fatto posto alla base del licenziamento opera la tutela reale, cioè la reintegra sul posto di lavoro (oggi non più facoltativa a seguito della censura della Consulta) affiancata dalla condanna del datore di lavoro al pagamento di un'indennità risarcitoria, pari al massimo a 12 mensilità di retribuzione, per il periodo dal licenziamento alla reintegra.
Nelle altre ipotesi il giudice dichiara risolto il rapporto e condanna il datore di lavoro al pagamento di un risarcimento, tra minimo 12 e massimo 24 mesi di retribuzione (tutela obbligatoria).
La questione
Il tribunale di Ravenna, nel sospettare di illegittimità costituzionale la tutela dei licenziamenti economici illegittimi, ha criticato la «parte in cui prevede che, in caso d'insussistenza del fatto, per disporre la reintegra occorra un quid pluris dato dalla dimostrazione della «manifesta» insussistenza del fatto.
In particolare, è prospettato il contrasto con l'art. 3 della costituzione, in ragione dell’arbitraria disparità di trattamento tra il regime applicabile al licenziamento intimato per giustificato motivo soggettivo o per giusta causa, da un lato, e la disciplina del licenziamento determinato da un giustificato motivo oggettivo, dall’altro lato. Solo la seconda, infatti, prevede la prova della «manifesta» insussistenza del fatto per ottenere il reintegro.
Il contrasto appare anche rispetto ai licenziamenti collettivi la cui violazione dei criteri di scelta concede sempre la reintegra invece preclusa nei licenziamenti individuali determinati da ragioni economiche ove, per l’appunto, il lavoratore non dimostri la «manifesta» insussistenza del fatto.
Il Tribunale sospetta anche la violazione del principio di ragionevolezza e di logicità perché imporrebbe al lavoratore la prova di un fatto «negativo» e dai contorni «indefiniti», che rientrerebbe nella sfera di disponibilità probatoria del datore di lavoro.
La decisione
La Consulta ha, in buona sostanza, accolto le censure del giudice rimettente, ritenendo il requisito del carattere manifesto, in quanto riferito all’insussistenza del fatto posto a base del licenziamento, «indeterminato». «Il criterio scelto dal legislatore – prosegue la Corte - si presta, infatti, a incertezze applicative e può condurre a soluzioni difformi, con conseguenti ingiustificate disparità di trattamento».
Tant’è vero che questo requisito demanda al giudice una valutazione sfornita di ogni criterio direttivo e per di più priva di un plausibile fondamento pratico. Perché oltre a dover provare l’insussistenza del fatto, la parte, e di seguito il giudice, si devono impegnare nell'ulteriore verifica della più o meno marcata «graduazione dell’eventuale insussistenza». Una complicazione processuale che dà luogo ad un evitabile squilibrio e lede il diritto alla difesa del lavoratore.
La Corte, per ovviare a tale sbilanciamento, ha dichiarato, quindi, l’illegittimità costituzionale dell’art. 18, settimo comma, secondo periodo, della legge 20 maggio 1970, n. 300 limitatamente alla parola «manifesta».