Naspi, niente indennizzo se il rapporto è risolto in via consensuale
Unica eccezione la risoluzione consensuale raggiunta nell'ambito di una procedura di conciliazione obbligatoria per le aziende che impiegano più di 15 dipendenti.
Questa la cornice generale. In merito alle ragioni di cessazione appena indicate ci sono alcune eccezioni che consentono comunque al prestatore di accedere al sostegno contro la disoccupazione. In un caso addirittura è la stessa legge che, in ordine ad uno specifico evento, attribuisce effetti di cessazione involontaria del rapporto di lavoro. L'articolo 55 del Dlgs 151/2001 stabilisce, infatti, che in caso di dimissioni presentate dalle lavoratrici madri nel periodo in cui vige il divieto del loro licenziamento (cioè da 300 giorni prima della data presunta del parto e fino al compimento del primo anno di vita del figlio) la lavoratrice ha diritto all'indennità previste dalla legge e dai contratti per il licenziamento. In sostanza, dunque, in questa ipotesi è la stessa legge che equipara le dimissioni della lavoratrice al licenziamento attribuendo, pertanto, il diritto alla corresponsione della tutela contro la disoccupazione alla madre dimissionaria.
Altre ipotesi sono state codificate dalla giurisprudenza e riguardano le cd. dimissioni per giusta causa cioè quelle cause di cessazione del rapporto dovute al venire ad esistenza di una condizione che impedisce lo svolgimento del rapporto di lavoro per fatti non addebitabili al lavoratore. Si tratta sostanzialmente di situazioni in cui il lavoratore è indotto a dimettersi per un comportamento dello stesso datore così grave da impedirne persino la provvisoria prosecuzione. Tali eventi sono equiparati ad uno stato di disoccupazione involontaria e, pertanto, consentono al lavoratore di percepire comunque la Naspi. Si pensi, ad esempio, al mancato pagamento della retribuzione, l'essere stato adibito a mansioni inferiori rispetto a quelle per le quali era stato assunto, l'aver subito mobbing o molestie sessuali nel luogo di lavoro, l'essere stato trasferito in un luogo molto distante dalla precedente sede lavorativa, il comportamento ingiurioso posto in essere dal superiore gerarchico (cfr Circolare Inps 163/2003).
Anche nelle ipotesi di risoluzione consensuale del rapporto di lavoro al prestatore non spetta la disoccupazione indennizzata. Tale regola generale tuttavia è derogata ove la risoluzione consensuale sia stata raggiunta nell'ambito di una procedura di conciliazione obbligatoria come prevista dall'articolo 7 della legge 604/1966. Come noto, qualora un datore di lavoro che occupa alle sue dipendenze più di 15 dipendenti decide di procedere ad uno o più licenziamenti per giustificato motivo oggettivo, è tenuto a darne una preventiva comunicazione alla DTL ed al lavoratore che si intende licenziare con indicazione delle ragioni del licenziamento. Ricevuta la comunicazione la DTL deve convocare le parti e tentare una conciliazione della questione. Ove tale procedura si concluda con una conciliazione tra le parti che prevede la risoluzione consensuale del rapporto di lavoro, il prestatore avrà diritto, anche se non disoccupato involontariamente, alla naspi.
Da segnalare, inoltre, che la cessazione del rapporto di lavoro per risoluzione consensuale - in seguito al rifiuto da parte del lavoratore al proprio trasferimento ad altra sede della stessa azienda distante oltre 50 chilometri dalla residenza del lavoratore e/o mediamente raggiungibile in 80 minuti o oltre con i mezzi di trasporto pubblici – non è ostativa al riconoscimento della prestazione di disoccupazione (Circolare Inps 142/2015).
Al di fuori delle citate ipotesi l'indennità non può essere riconosciuta. Tanto meno la disoccupazione indennizzata può essere concessa nei casi di risoluzione consensuale in esito ad un incentivo all'esodo, cioè ove il datore paga una somma di denaro al lavoratore per acquisire il suo consenso alla risoluzione del rapporto. In tale circostanza, pertanto, il lavoratore deve ponderare bene la convenienza dell'accettazione dell'incentivo all'esodo.