Per lavorare sino a 70 anni serve l'accordo con il datore di lavoro
La Corte di Cassazione, nel solco della sentenza a sezioni Unite 17859/2015, ha respinto il ricorso di un giornalista che puntava a restare in servizio sino all'età di 70 anni.
La questione
La Corte d'Appello confermando il giudizio del Tribunale di primo grado aveva negato il diritto del lavoratore a proseguire l'attività lavorativa adeguandosi così ai principi scaturiti dalla sentenza "scuola" della Cassazione a Sezioni Unite del 2015 (Cass. 17859/2015). La decisione da ultimo richiamata aveva, infatti, statuito in ordine ad un caso del tutto simile riguardante un giornalista Inpgi a cui era stata negata la possibilità di trattenersi oltre il compimento dell'età pensionabile senza l'assenso del datore di lavoro per maturare una pensione più elevata. Da qui le decisioni dei tribunali di merito che avevano rigettato le richieste del giornalista.
La difesa del ricorrente ha, tuttavia, proposto ricorso per Cassazione ponendo a fondamento dell'azione due ordini di questioni. Con la prima doglianza il lavoratore lamentava il mancato riconoscimento della possibilità di godere dell'incentivazione alla permanenza sul posto di lavoro offerta dall'articolo 24, co. 4 della legge 214/2011 all'INPGI, in quanto ente privatizzato gestore di forma obbligatoria di assistenza e previdenza; con il secondo motivo era denunciata la violazione e falsa applicazione del predetto art. 24, comma 4, per aver la sentenza impugnata, statuito che la disposizione non attribuisse alcun diritto potestativo al lavoratore di continuare il rapporto di lavoro sino al 70° anno di età, ma solo condizioni di incentivo alla prosecuzione consensuale del rapporto.
La decisione
La Corte di Cassazione ha bocciato in toto le richieste del lavoratore. Essendo la materia del contendere e le doglianze della parte ricorrente praticamente speculari alla decisione a Sezioni Unite del 2015 i giudici hanno in sostanza ribadito la linea già espressa in occasione di tale pronuncia. Nello specifico la Corte di Cassazione ha riaffermato il principio secondo il quale la disposizione di cui all'articolo 24, co. 4 della legge 214/2011 non possa applicarsi al regime Inpgi (e alle altre forme di previdenza privatizzate di cui al Dlgs 509/1994). Non osta al riguardo la circostanza che l'Inpgi gestisca una forma sostitutiva dell'AGO e che tali forme risultino richiamate nel predetto comma 4 dell'articolo 24. L'Inpgi, infatti, nonostante l'ambiguità normativa è un ente privatizzato e, pertanto, non è destinatario dell'incentivazione offerta dalla disposizione incriminata che, piuttosto, è riferita alle forma di previdenza pubbliche obbligatorie (cioè l'Inps).
I giudici rigettano anche la seconda doglianza della difesa secondo la quale il lavoratore avrebbe un diritto potestativo alla prosecuzione del rapporto sino a 70 anni. Come già espresso nella sentenza a Sezioni Unite del 2015 la norma in discussione "non attribuisce al lavoratore un diritto di opzione per la prosecuzione del rapporto di lavoro, né consente allo stesso di scegliere tra la quiescenza o la continuazione del rapporto, ma prevede solo la possibilità che, grazie all'operare di coefficienti di trasformazione calcolati fino all'età di settanta anni, si creino le condizioni per consentire ai lavoratori interessati la prosecuzione del rapporto di lavoro oltre i limiti previsti dalla normativa di settore." "E' questo - concludono i giudici - il senso della locuzione "è incentivato ... dall'operare dei coefficienti di trasformazione ...", la quale presuppone che non solo si siano create dette più favorevoli condizioni previdenziali, ma anche che, grazie all'incentivo in questione, le parti consensualmente stabiliscano la prosecuzione del rapporto sulla base di una reciproca valutazione di interessi". Per queste ragioni i giudici hanno respinto il ricorso del giornalista.