Riforma Pensioni, ancora controversa la prosecuzione del lavoro sino a 70 anni
La legge Fornero incentiva la permanenza sul posto di lavoro sino a 70 anni. Ma a distanza di oltre 2 anni dalla sua approvazione la norma ha ancora trovato una applicazione uniforme nei Tribunali.
Kamsin E' ancora tutta aperta la partita per i lavoratori dipendenti del settore privato sulla possibilità di restare in servizio, dopo il perfezionamento della pensione di vecchiaia (66 anni e 3 mesi e 20 anni di contributi) sino al compimento del settantesimo anno di età per raggiungere una pensione piu' succulenta.
L'articolo 24, comma 4 del DL 201/2011 infatti dispone che: «Il proseguimento dell’attività lavorativa è incentivato, fermi restando i limiti ordinamentali dei rispettivi settori di appartenenza, dall’operare dei coefficienti di trasformazione calcolati fino all’età di settant’anni fatti salvi gli adeguamenti alla speranza di vita come previsti dall’art. 12 del d.l. n. 78/2000. Nei confronti dei lavoratori dipendenti, l’efficacia delle disposizioni di cui all’art. 18 della legge 20 maggio 1970, n. 300 e successive modificazioni opera fino al conseguimento del predetto limite massimo di flessibilità». Sono diverse le criticità che pone questa disposizione. Vediamole.
Da un lato il legislatore pare aver di fatto introdotto, per la prima volta, due distinte discipline per il recesso ad nutum del lavoratore in possesso dei requisiti per la pensione di vecchiaia, le quali risultano differenziate, a seconda che alla fattispecie concreta trovi o meno applicazione l’art. 18 dello Statuto dei lavoratori, nei seguenti termini:
- i dipendenti in forza presso datori di lavoro che occupano più di 15 dipendenti (o, in caso di più unità produttive, che occupano più di 15 dipendenti nel l’ambito del territorio di un singolo comune e in ogni caso ove i dipendenti occupati siano complessivamente più di 60) possono proseguire fino a 70 anni e sino a tale età sono tutelati contro i licenziamenti senza giustificazione;
- diversamente, i dipendenti in forza presso datori di lavoro aventi fino a 15 dipendenti ( nell’unità produttiva considerata o, in caso di più unità produttive, che non superino i 15 dipendenti nell’ambito del territorio di un medesimo comune, sempreché il dato occupazionale complessivo non superi le 60 unità ), possono essere licenziati al raggiungimento dei requisiti pensionistici di vecchiaia, senza poter scegliere, di proseguire a lavorare sino ai 70 anni di età.
Oltre a tale articolazione, che viene determinata dall'operatività o meno dell'articolo 18 dello statuto dei lavoratori, il principale interrogativo è quello relativo alla posizione giuridica del lavoratore interessato a proseguire l’attività lavorativa sino al settantesimo anno di età.
L’assenza di qualsiasi riferimento al consenso del datore di lavoro ovvero a particolari modalità attuative del precetto, dovrebbe far propendere per una ricostruzione in termini di vero e proprio diritto potestativo del lavoratore alla prosecuzione dell’attività lavorativa sino al settantesimo anno, con automatico diritto alla conservazione del pregresso regime di stabilità del rapporto e applicazione dei più favorevoli coefficienti di trasformazione per il calcolo della prestazione pensionistica così come accordati dal legislatore.
Se questa pare l'opinione prevalente e condivisibile, alcune sentenze recenti della giurisprudenza (Trib. Roma, 5 novembre 2013; Trib. Roma (ord.), 17 dicembre 2013, n. 141084; Corte App. Torino,
24 ottobre 2013) considerano invece la fruizione del diritto in questione subordinata al consenso del datore di lavoro, il quale, pertanto potrebbe opporsi alla prosecuzione del rapporto oltre l'età pensionabile.
Dal canto loro queste sentenze fanno leva sull’utilizzo del termine “è incentivato” senza alcuna altra indicazione che consenta di affermare sia l’esistenza di un diritto in favore del lavoratore, sia la disciplina dell’esercizio di tale diritto, dall’altro l’espresso richiamo ai "limiti ordinamentali che il datore di lavoro potrà invocare per recedere legittimamente dal rapporto di lavoro" che, non potendo essere disapplicati unilateralmente dal lavoratore, implicitamente rinvierebbero ad una necessaria bilateralità del consenso. Si è fatto leva anche sulla recente espressa previsione che l'incentivazione non può operare nel pubblico impiego indicando che il riconoscimento di un diritto potestativo in capo al lavoratore nel settore privato creerebbe disparità di trattamento tra impiego pubblico e privato con possibilità di censura costituzionale.
In realtà l’intento del legislatore è quello di consentire la permanenza in servizio oltre l’età prevista per il pensionamento di vecchiaia, e dunque l’interpretazione più lineare è quella che riconosce al lavoratore la conservazione del medesime tutele sino a quel momento accordategli dall’ordinamento, senza possibilità di essere licenziato.
Il Profilo Soggettivo - Quanto al profilo soggettivo, la norma è destinata a operare nei confronti dei lavoratori subordinati di imprese con oltre 15 dipendenti (perchè altrimenti non potrebbe, come visto, operare la tutela reale offerta dall'articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori in caso di licenziamento e quindi la prosecuzione del rapporto di lavoro), che non abbiano maturato i requisiti pensionistici alla data del 31 dicembre 2011, inscritti all’Inps ovvero a uno dei regimi sostitutivi di questo anche se privatizzati.
La circostanza inoltre che alcuni di questi enti (si pensi all’Inpgi) abbiano optato per l’adozione del sistema di calcolo retributivo, non dovrebbe peraltro inibire l’applicabilità della prosecuzione del rapporto di lavoro posto che il riferimento ai coefficienti di trasformazione dovrebbe essere inteso nel senso di applicabilità pro rata del relativo sistema di calcolo.
Zedde