Il 2024 anno difficile per le pensioni
Quest’anno sarà molto improbabile varare una riforma strutturale delle pensioni a causa della difficoltà dei conti pubblici: ma è proprio così?
È iniziato il nuovo l’anno e nuovamente l’argomento previdenziale dovrebbe ritornare tra i temi principali della politica dal momento che nello scorso anno ci sono stati solamente pochi interventi temporanei che vanno in scadenza al 31 dicembre 2024. Siamo quasi alla metà di marzo e abbiamo assistito solamente a qualche generica affermazione della maggioranza di Governo sulla volontà dell’Esecutivo di attuare una riforma equa e strutturale ma che per mancanza di adeguate risorse questa sarebbe stata approvata entro il termine naturale della legislatura.
Le parole della Ministra Calderone che la riforma non si farà a breve hanno gelato le speranze di molti lavoratori che temono di dover aspettare altri due anni per avere quello che era stato promesso in campagna elettorale. Il piano del Governo è sempre quello di poter arrivare ai famosi 41 anni per tutti indipendentemente dall’età applicando in toto il calcolo contributivo così da affiancarlo alla Legge Fornero che resterebbe la legge di riferimento della previdenza in Italia e dando uno sviluppo sostanziale alla previdenza complementare e, per intanto, confermare anche per il prossimo anno gli interventi varati nella recente legge di bilancio.
In pratica a causa della difficile situazione economica attuale rimandare all’anno 2025 la riforma strutturale sperando che il prossimo anno con l’aumento del PIL possano finalmente dal 1° gennaio 2026 entrare in vigore i provvedimenti equi e strutturali che i cittadini italiani aspettano da quasi quindici anni.
In realtà questo discorso dei costi della previdenza di cui sentiamo parlare da sempre non è del tutto vero dal momento che considerando solamente entrate ed uscite della sola previdenza questa risulta essere addirittura in attivo di quasi quaranta miliardi e che la situazione pesante in cui versa l’INPS è dovuta esclusivamente al costo dell’assistenza che è ormai fuori controllo e che dovrebbe invece gravare sulla fiscalità generale. In pratica l’assistenza che “pesa” per oltre cento miliardi l’anno dovrebbe essere finanziata con le imposte e con le tasse versate dai cittadini e non come avviene attualmente in maniera significativa con i contributi della previdenza.
Oltretutto le entrate tributarie sono aumentate negli ultimi due anni di circa un’ottantina di miliardi facendo registrare il record d’incassi e perfino la lotta all’evasione da sempre pecora nera dell’Italia, che pur dovrebbe essere ulteriormente implementata magari facendo ricorso al famoso “contrasto di interessi”, ha registrato nell’anno appena passato il suo record con quasi venticinque miliardi incassati.
Non serve pertanto rimandare in eterno dei provvedimenti necessari per la vita dei cittadini in attesa di un miglioramento dei conti pubblici che obiettivamente non possono essere tra due o tre anni molto migliori rispetto a quelli attuali che poi non sono così catastrofici. E’ necessario, piuttosto, trovare delle soluzioni diverse e avere una visione più ampia come per esempio operare una flessibilità opzionale in uscita operando delle minime penalizzazioni a cui contrapporre per chi lo desidera e per alcune categorie di lavoratori concedere delle maggiorazioni a chi rimane sul posto di lavoro oltre l’età ordinamentale, stabilire un tetto agli assegni previdenziali a cui non corrispondono adeguati versamenti contributivi e aprire una finestra sul mondo dei robot e dell’intelligenza artificiale per far sì che questi strumenti innovativi e che stanno già stravolgendo la vita dei lavoratori soprattutto con mansioni medio-basse e che lo saranno sempre più in futuro siano tassati e possano contribuire in maniera almeno parziale ai costi della previdenza.