Invalidi civili, La Consulta dovrà pronunciarsi sulla congruità della pensione per gli invalidi totali
La Corte d'Appello di Torino ha sollevato la questione di legittimità costituzionale sulla legge 118/1971. Secondo la Corte 285 euro al mese sono insufficienti per garantire un sostegno adeguato agli invalidi totali. Sotto accusa anche il mancato riconoscimento dell'incremento della maggiorazione sociale.
La questione
La Corte d'Appello era stata chiamata in causa contro la mancata concessione da parte dell'Inps dell'incremento della maggiorazione sociale di cui all'articolo 38 della legge 448/2011 nei confronti di una 47enne, invalida civile al 100%, già titolare di pensione di invalidità civile ai sensi dell'articolo 12 della legge numero 118/1971 e di indennità di accompagnamento ex art. 1 legge n. 18/1980 di ammontante nell'anno 2018 ad 515,43€ mensili per dodici mensilità. L'interessata lamentava l'inadeguatezza della misura della pensione di inabilità civile (286,66 euro mensili + l'integrazione di 10,33 euro di cui all'art. 70, comma 6, legge n. 388/2000) per consentire la conduzione di una esistenza dignitosa considerando che la stessa non poteva, per le condizioni di salute, prestare alcuna forma di attività lavorativa. Aveva, peraltro, chiesto l'erogazione della maggiorazione di cui all'articolo 38, co. 4 della legge 448/2001 (il cd. incremento al milione) spettante però, fra l'altro, solo ai cittadini invalidi civili totali aventi età pari o superiore a sessanta anni. Il riconoscimento della maggiorazione avrebbe consentito l'integrazione della prestazione sino a 638 euro mensili circa, oltre l'indennità di accompagnamento, consentendo all'invalida di raggiungere quel minimo vitale per soddisfare le proprie esigenze economiche.
La posizione della Corte
I giudici non potendo biasimare il comportamento dell'Inps (che non può far altro che applicare una norma di legge) hanno ravvisato due elementi di incostituzionalità. La prima riguarda la determinazione della misura della pensione di invalidità civile giudicata assolutamente insufficiente a garantire il soddisfacimento delle minime esigenze vitali dell'invalido. L'importo - scrivono i giudici - ancorchè integrato nella misura di 10,33 euro (ai sensi dell'art. 70, comma 6, legge n. 388/2000), "non è certamente sufficiente, per comune esperienza, a garantire all'invalido il soddisfacimento dei più elementari bisogni della vita, come alimentarsi, vestirsi e reperire un'abitazione". A sostegno della censura i giudici citano diverse pronunce della Cassazione in cui è stato fissato in misura superiore alla cifra di 285 euro il minimo vitale per la conduzione di una esistenza dignitosa. Lo stesso assegno sociale - affermano i giudici -, che può costituire un parametro di riferimento per i normodotati, è fissato in misura più favorevole rispetto alla pensione di inabilità civile.
Nella valutazione dell'idoneità della misura delle provvidenze erogate i giudici sottolineano come non possa includersi l'indennità di accompagnamento (che si somma, al ricorrere dei requisiti sanitari, alla pensione di inabilità civile) "rispondendo tale provvidenza a finalità diverse da quella che presiede all'erogazione della pensione di inabilità, diretta invece a garantire al soggetto totalmente inabile al lavoro privo di mezzi sufficienti il necessario per far fronte alle spese indispensabili al proprio mantenimento". L'irrisorietà della misura della pensione di inabilità civile risulterebbe, pertanto, in contrasto con l'art. 38, comma 1 della Costituzione che sancisce il diritto di "ogni cittadino inabile al lavoro e sprovvisto dei mezzi necessari per vivere ... al mantenimento e all'assistenza sociale".
La seconda censura riguarda l'articolo 38 della legge 448/2001 nella parte in cui nega l'incremento al milione agli invalidi civili totali con meno di 60 anni. Si tratta, secondo la Corte, di una norma discriminatoria in quanto riconosce l'incremento, fra l'altro, ai normodati titolari di assegno (o pensione) sociale al raggiungimento del 70° anno di età consentendo loro di raggiungere un indennizzo di oltre 600 euro mensili mentre lascia "una pensione di inabilità pari a poco più della metà ai soggetti totalmente inabili di età compresa fra 18 e 59 anni che si trovino per di più in condizioni di gravissima disabilità".
Le norme incriminate
Per queste ragioni la Corte d'Appello ha sollevato la questione di legittimità costituzionale dell'art. 12, comma 1, della legge 30 marzo 1971, n. 118 di conversione del decreto-legge 30 gennaio 1971, n. 5 nella parte in cui attribuisce al soggetto totalmente inabile, affetto da gravissima disabilità e privo di ogni residua capacità lavorativa, una pensione di inabilità di importo, pari nell'anno 2018 ad euro 282,55 e nell'anno 2019 ad euro 285,66, insufficiente a garantire il soddisfacimento delle minime esigenze vitali, in relazione agli articoli 3, 38, comma 1, 10, comma 1, e 117, comma 1, della Costituzione. E l'art. 38, comma 4, legge 28 dicembre 2001, n. 448, nella parte in cui subordina il diritto degli invalidi civili totali, affetti da gravissima disabilità e privi di ogni residua capacità lavorativa, all'incremento previsto dal comma 1 al raggiungimento del requisito anagrafico del 60° anno di età, in relazione agli articoli 3 e 38, comma 1, della Costituzione.