L'indennità di accompagnamento può essere negata ai malati terminali
Lo ha ribadito la Corte di Cassazione ritenendo quale presupposto necessario al riconoscimento della prestazione la sussistenza di una situazione debilitante tale da impedire le normali attività della vita quotidiana e non la risposta ad un’emergenza terapeutica. Non può, quindi, essere accolta la richiesta da parte di chi, affetto da una malattia terminale per cui è certa e vicina la sopravvenienza della morte, ha bisogno di assistenza, per esempio, per essere curato in casa.
L’indennità di accompagnamento, come ha rimarcato la Corte di Legittimità nella sentenza n. 29449/2020, è negata nei casi di grave malattia con sicura sopravvenienza della morte in poco tempo, dal momento che in tale ipotesi la continua assistenza risulta finalizzata non a consentire il compimento degli atti quotidiani del vivere (tra i quali l'alimentazione, la pulizia personale, la vestizione) ma a fronteggiare una «emergenza terapeutica» quali le cure domiciliari, talvolta palliative. Al contrario l'aiuto pubblico non va precluso sulla base del fatto che le gravi patologie finiranno per provocare la morte.
La questione
La pronuncia è stata resa a seguito di ricorso avverso una sentenza della Corte d’Appello di Napoli presentato dagli eredi del soggetto, malato oncologico terminale, purtroppo deceduto nel frattempo. L’INPS, in qualità di controparte, non aveva infatti accordato l’indennità di accompagnamento al de cuius perché dagli accertamenti peritali e dalle risultanze documentali, di cui si è tenuto conto in primo e secondo grado e, ora, anche di fronte alla Cassazione, l’assistenza per cui si richiedeva la copertura indennitaria atteneva alla fase terminale della malattia in occasione della quale erano state erogate terapie d’urgenza.
Alla base della decisione impugnata il granitico orientamento giurisprudenziale che vuole l’indennità di accompagnamento erogata in favore degli invalidi civili totali per i quali è stata accertata l’impossibilità di deambulare senza l’aiuto di un accompagnatore oppure l’incapacità di compiere gli atti quotidiani della vita. Escluso, quindi, il caso di una persona che, a causa dello stato avanzato della malattia, si trovi in prossimità del decesso e necessiti non solo di un aiuto quotidiano per le prime necessità, ma anche di un sostegno terapeutico domiciliare.
La decisione
Gli Ermellini confermano ancora una volta la decisione e rigettano il ricorso degli eredi, ribadendo il consolidato orientamento che vede la non autosufficienza per compiere le attività quotidiane come unico presupposto per il riconoscimento dell’indennità di accompagnamento. Nel corso di entrambi i giudizi, infatti, è stato accertato che l’assistenza, assicurata anche attraverso ricoveri in strutture, era in realtà volta alla somministrazione delle terapie necessarie e non all’ausilio delle impellenze quotidiane. In linea generale, rimarca la Corte, la ratio dell'indennità di accompagnamento segue l’esigenza di incentivare l'assistenza domiciliare della persona invalida, in luogo di un onere ben più gravoso in capo allo Stato come quello del ricovero in strutture pubbliche, con un risparmio in termini di spesa sociale.
«L’indennità di accompagnamento può essere negata – motiva la Corte - solo quando sia possibile formulare un giudizio prognostico di rapida sopravvenienza della morte, in ambito temporale ben ristretto, nel qual caso la continua assistenza risulti finalizzata non già a consentire il compimento degli atti quotidiani del vivere (tra i quali l'alimentazione, la pulizia personale, la vestizione) ma fronteggiare una emergenza terapeutica (cfr. Cass. n.7179 del 2003 e nn. 9583 e 11610 del 2002)».
Ribadito, tra l’altro, l’altrettanto consolidato orientamento (sentenza n. 7179 del 2003) per cui la presenza di malattie gravi, tali da reputare inevitabile la morte dell’individuo ma senza un giudizio prognostico sulla vicinanza temporale dell’evento (certo nell’an ma incerto nel quando) non escludono il diritto all’indennità di accompagnamento. Non sarebbe legittimo, infatti, negare la necessità di un'assistenza continua per il fatto che, entro un arco di tempo indeterminato, sopraggiungerà la morte.