Riforma Pensioni, Con il Governo Meloni un passo indietro
Ampiamente deluse ormai le aspettative di una maggiore flessibilità in uscita. Le norme sulla previdenza contenute all’interno della legge di Bilancio non consentiranno nemmeno nel 2024 di avere l’auspicata riforma previdenziale.
La manovra economica è ormai approdata in Parlamento e diventerà legge tra poco più di un mese. Sulla previdenza ci saranno solamente pochi peggiorativi provvedimenti (Quota 103 penalizzata, Opzione Donna e Ape Sociale con aumento del requisito anagrafico) senza toccare la struttura della legge Fornero che ormai in vigore da oltre un decennio rimane nella sua rigidità. Al di là delle affermazioni dei politici di tutti gli schieramenti questa legge preparata e votata in emergenza in poco più di un mese e che doveva essere negli anni successivi ampiamente modificata è rimasta lì come un totem ed addirittura all’interno della NADEF viene omaggiata in quanto “ha migliorato in modo significativo la sostenibilità del sistema pensionistico nel medio lungo periodo garantendo una maggiore equità tra le generazioni”.
Eppure, i problemi in ambito previdenziale rimangono in tutta la loro gravità e gli interventi inseriti in LdB non risolvono una situazione che viene rimandata di anno in anno e che invece va assolutamente affrontata. Col nostro attuale sistema a ripartizione, (chi lavora e versa i contributi sostiene la spesa degli assegni previdenziali di chi è già in pensione) per far in modo che il sistema sia in equilibrio è necessario che ci sia almeno un lavoratore e mezzo per ogni pensionato. Già ora questo rapporto è fissato a 1,4 lavoratori per ogni pensionato (e dati recentissimi evidenziano che nelle regioni del sud questo rapporto sia già di 1 su 1) ma soprattutto a causa di un occupazione giovanile e femminile molto frammentata, di retribuzioni troppo basse e di costante aumento dell’aspettativa di vita questo rapporto tra pochi anni sarà di 1,3 su 1 e tra vent’anni scenderà pericolosamente ad 1 su 1 su tutto il territorio nazionale con reali, forti rischi, di mettere in ginocchio l’INPS che non sarà più in grado di erogare a tutti le pensioni.
Con una natalità che nell’anno 2022 ha conseguito il record negativo addirittura dal 1861, (i nuovi nati nell’anno appena passato sono stati appena 393.000 quando negli anni di boom economico si superava il milione), con un numero elevato di persone che usufruendo di assegni assistenziali fa ampio ricorso al lavoro nero ed al fatto che negli ultimi vent’anni gli stipendi in Italia a causa della stagnazione del PIL e della scarsa produttività sono rimasti al palo, l’intervento in ambito previdenziale non può più essere procrastinato. E non sono più da prendere in considerazione provvedimenti come quelli attuati negli ultimi anni come le “Quote” che non risolvono il problema e creano ulteriori situazioni di tensione tra i lavoratori.
Un buon punto di partenza per risolvere almeno parzialmente il problema sarebbe quello di dividere finalmente la previdenza dall’assistenza anche per evidenziare che la spesa previdenziale italiana depurata da quella assistenziale è in linea coi principali Paesi europei, poi si dovrebbe operare sulle politiche attive del lavoro aumentando progressivamente gli stipendi e attuare un’ampia flessibilità in uscita con lievi penalizzazioni annue a partire dai 62 anni incentivando al tempo stesso, per alcune categorie di lavoratori, chi volesse restare nel mondo del lavoro oltre l’età ordinamentale di pensionamento. In questo modo il costo delle uscite anticipate sarebbe compensato, almeno in parte, dai pensionamenti ritardati con un vantaggio per l’Erario che pagherebbe assegni previdenziali per un numero minore di anni. Forte impulso, poi, dovrebbe essere dato alla seconda gamba del sistema previdenziale, quella previdenza integrativa che va molto implementata, aumentando la deducibilità in ambito fiscale, concedendo maggiori possibilità di accedere in caso di bisogno al proprio capitale e diminuendo la tassazione finale.
È necessario, quindi, già dall’inizio del prossimo anno, attuare una concertazione tra tutti gli attori presenti nel panorama previdenziale italiano, vale a dire politici, sindacati, associazioni di categoria, tecnici, per trovare una soluzione a quello che rischia di diventare, come anche affermato dalla Premier Meloni una bomba sociale nei prossimi decenni.