Riforma Pensioni, Ecco i correttivi suggeriti dalla Camera per le donne
Dal 2018 le lavoratrici dipendenti vedranno allungarsi la pensione di un altro anno. Si passerà da 65 anni e 7 mesi a 66 anni e 7 mesi. La Gnecchi: pronti a correttivi se il Governo darà il via libera.
Nuovi Benefici Contributivi
Nello specifico, si legge nel dossier approvato dalla Commissione Lavoro, occorre in primo luogo valorizzare, andando oltre quanto già previsto dall'articolo 1, comma 40, della legge n. 335 del 1995, tutti gli istituti capaci di ridurre gli effetti negativi della maggiore discontinuità delle carriere lavorative femminili. A tal fine appare opportuno incrementare i benefici (accrediti figurativi, aumenti dell'importo pensionistico, facoltà di riscatto) in relazione a specifici eventi (quali la nascita e la malattia dei figli, l'assistenza a disabili e ad anziani non autosufficienti) soprattutto al fine di estenderli anche ai periodi al di fuori del rapporto di lavoro, rispetto ai quali la legislazione italiana risulta comparativamente più carente in confronto a quelle degli altri Paesi europei.
Attingendo alle esperienze dei Paesi con le legislazioni più avanzate è possibile, poi, ipotizzare altre modalità di intervento (ossia forme di compensazione "implicita"), che consentirebbero di perseguire le medesime finalità con strumenti diversi, ma egualmente efficaci. Ad esempio si potrebbe tenere conto, ai fini del calcolo contributivo, non già dell'intero ciclo di vita lavorativa, ma solo degli anni meglio remunerati, escludendo quelli (a salario zero o a basso salario) dedicati (in tutto o in parte) ai lavori di cura (gli anni dedicati alla cura di figli che è possibile escludere ammontano a sette in Canada, dodici in Inghilterra e Lussemburgo e ben sedici in Svizzera), che vengono riconosciuti come periodo lavorato con un calcolo contributivo pari alla media dei periodi lavorati effettivamente.
In alternativa, si potrebbero prevedere maggiorazioni dell'anzianità contributiva per le donne e gli uomini che si occupano dei figli (come accade soprattutto in Francia); o, ancora, riconoscere il lavoro di cura e, contemporaneamente, incentivare le donne a lavorare, riconoscendo ad esse specifici benefici se decidono di non interrompere l'attività lavorativa (come avviene in Germania, ove vige un sistema che riconosce 0,33 punti in più per ogni anno, fino ai tre anni di età del figlio, se le donne non interrompono l'attività lavorativa). Particolare attenzione dovrebbe essere, in questo contesto, dedicata alle misure volte a rispondere all'esigenza di cura dei familiari non auto sufficienti, dal momento che l'incremento della vita media rende sempre più frequente la presenza nel nucleo familiare di soggetti bisognosi di cure e assistenza costanti.
La revisione dell'eta' pensionabile
Sull'età pensionabile delle donne il dossier ribadisce che dal 2018 si completerà l'ultimo tassello della Riforma del 2011 con l'equiparazione dell'età per la pensione di vecchiaia a quella prevista per gli uomini: anche le lavoratrici del settore privato (sia dipendenti che autonome) dovranno raggiungere i 66 anni e 7 mesi di età per accedere al trattamento di vecchiaia. Per correggere questo punto "Stiamo lavorando su due direttrici di intervento ha indicato la Gnecchi. Da un lato dare piu' flessibilità in uscita a tutti i lavoratori, uomini e donne. Maggior flessibilità in uscita significa assegni più leggeri aprendo un ventaglio temporale (dai 60 ai 70 anni), in cui le persone possano adottare una scelta personale e consapevole, senza sadiche penalizzazioni".
Dall'altro è necessaria una modifica chirurgica alla legge Fornero per le donne nel sistema contributivo (cioè coloro che non posseggono contributi alla data del 31 dicembre 1995): la Riforma del 2011 chiede, infatti, a queste lavoratrici il rispetto di un importo minimo della pensione che non deve risultare inferiore a 1,5 volte il valore dell'assegno sociale (circa 670 euro al mese). Se questo valore non viene centrato, rischio a cui sono particolarmente esposte le lavoratrici a causa di carriere retributive spesso modeste, la pensione di vecchiaia slitterà di altri tre anni superando così ampiamente la soglia dei 70 anni. A questa penalità, occulta, sono esposte le giovani donne che in futuro avranno una pensione completamente determinata con il sistema contributivo.
La tematica delle ricongiunzioni onerose
Altri interventi urgenti da attuare, si legge nel dossier, attengono alle problematiche insorte a seguito della nuova disciplina delle ricongiunzioni (di cui si è detto in precedenza) e alla situazione delle donne che si sono dimesse volontariamente, prima dell'entrata in vigore della manovra del 2011, contando sulla ravvicinata maturazione dei requisiti per il pensionamento di vecchiaia. I vari interventi di salvaguardia fin qui adottati non hanno purtroppo affrontato adeguatamente tale problema, con il risultato che molte donne si trovano ancora senza lavoro e senza pensione.
A complicare la situazione ha contribuito anche una discutibile circolare interpretativa dell'INPS, la circolare n. 35 del 14 marzo 2012, che, al paragrafo 6, ha limitato l'utilizzabilità della facoltà prevista dall'articolo 24, comma 15-bis, lettera b), del decreto-legge n. 201 del 2011 (il quale consente il pensionamento anticipato di vecchiaia a 64 anni per le donne che, entro il 31 dicembre 2012, abbiano maturato almeno 20 anni di contributi e compiuto i 60 anni di età) subordinando tale beneficio al requisito aggiuntivo (non previsto dal legislatore) della prestazione di attività lavorativa alla data del 28 dicembre 2011.
Correttivi per le giovani generazioni
Infine, una riflessione più ampia, che muovendo dalle considerazioni fin qui svolte a proposito delle donne si estenda, più in generale, alla condizione lavorativa delle giovani generazioni, è auspicabile che si avvii anche con riferimento alla sostenibilità sociale di un sistema previdenziale puramente contributivo, caratterizzato da un sistema di correttivi assai limitati e inefficienti. Più in generale, considerato che saranno sempre più frequenti carriere contributive frammentate e sulla scorta delle evidenze emerse dalla presente indagine, appare in ogni caso necessario avviare una riflessione sui correttivi da apportare al nostro sistema previdenziale, al fine di coniugare la logica del contributivo (che occorre ovviamente conservare) con l'esigenza (altrettanto imprescindibile) di non penalizzare, in modo socialmente insostenibile, i lavoratori che siano stati occupati in modo precario o discontinuo.
A tal fine la strada da percorrere potrebbe essere quella della costruzione di un pilastro previdenziale di base, finanziato dalla fiscalità generale, che garantisca a tutti i lavoratori uno "zoccolo" pensionistico di sussistenza (eventualmente parametrato all'attuale assegno sociale), sul quale si andrebbe ad innestare il calcolo contributivo legato alla storia lavorativa.
La questione del reddito pensionistico dei giovani, come si ricorderà, risale alla riforma Dini del 1995 che ha introdotto per le persone che hanno iniziato l'attività lavorativa dal 1996 in poi un sistema di calcolo delle pensioni esclusivamente contributivo, realizzando il concetto di trasformazione in pensione dei soli contributi accumulati durante la vita lavorativa, al fine di garantire l'equilibrio e la sostenibilità del sistema previdenziale. Nel contempo ha abolito il diritto all'integrazione al trattamento minimo che era stato un intervento attraverso il quale viene garantito ai lavoratori un trattamento pensionistico ritenuto indispensabile per vivere in presenza di requisiti precisi e di condizioni reddituali definite.
La mancata previsione dell'integrazione al trattamento minimo per le pensioni liquidate con il calcolo contributivo doveva essere compensata dall'introduzione della previdenza integrativa, secondo pilastro, prevista però su adesione volontaria, con l'obiettivo di garantire ai futuri pensionati un reddito ulteriore che andava a sommarsi alla pensione di base come primo pilastro. Obiettivo rimasto in buona parte irrealizzato. Secondo il documento approvato dalla Commissione su questo tema è possibile trovare un accordo politico trasversale per garantire un sostegno minimo per i futuri pensionati pari all'importo dell'assegno sociale (448 euro al mese) sul quale poi si potrebbe aggiungere il valore della pensione contributiva maturata dal lavoratore. Si tratterebbe di una sorta di "zoccolo di base" sul quale sommare la pensione vera e propria.