Assegni familiari agli extracomunitari anche se i familiari sono nel paese d'origine
Lo ha ribadito la Corte costituzionale riaffermando i principi emersi in due sentenze della Corte di Giustizia europea sulla parità di trattamento tra cittadini italiani e stranieri. Le decisioni del giudice comunitario, peraltro, sono direttamente applicabili e, pertanto, non necessitano di una ulteriore pronuncia della Consulta.
I cittadini extraUe con permesso di soggiorno di lungo periodo o di permesso unico di soggiorno e lavoro hanno diritto all'assegno per il nucleo familiare (Anf), anche se i propri familiari sono rientrati nel paese d'origine. E', infatti, in contrasto con i principi cardine del diritto comunitario riservare loro una tutela deteriore rispetto a quanto previsto per i cittadini italiani (per i quali, come noto, l'Anf spetta anche se moglie e figli sono residenti all'estero). Lo rende noto la sentenza n. 67 della corte costituzionale depositata venerdì nella quale afferma che il giudice nazionale è tenuto a disapplicare direttamente la norma italiana incompatibile con il diritto comunitario senza bisogno di una declaratoria di incostituzionalità.
Diritto Comunitario
La decisione è l'esito di una lunga questione che ha visto protagonisti due cittadini extracomunitari (uno pakistano, l'altro cingalese), titolari rispettivamente di permesso di lungo soggiorno e di permesso unico di soggiorno e lavoro che si erano visti negare dall'INPS la corresponsione degli ANF per il periodo in cui i loro familiari avevano fatto rientro nei paesi d'origine. La legge italiana, infatti, prevede che «non fanno parte del nucleo familiare il coniuge, i figli ed equiparati di cittadino straniero che non abbiano la residenza nel territorio della Repubblica, salvo che lo Stato di cui lo straniero è cittadino riservi un trattamento di reciprocità nei confronti dei cittadini italiani ovvero sia stata stipulata convenzione internazionale in materia di trattamenti di famiglia».
La Corte giustizia Ue si era già espressa con le sentenze 302 e 303 del 25 novembre 2020 affermando che la legislazione italiana violava il diritto comunitario. La direttiva 2003/109, infatti, dispone che gli stati membri possono fissare le condizioni di concessione delle prestazioni familiari (tra cui rientra anche l'ANF), con relativi importo e periodi di spettanza, purché sia rispettato il principio di parità di trattamento con i cittadini nazionali. L'Italia, del resto, non si è avvalsa della facoltà di limitare la parità di trattamento in sede di recepimento della direttiva 2003/109.
Pertanto, la corte UE ha dichiarato che la normativa italiana è in contrasto con il principio di uguaglianza delle direttive 2011/98 e 2003/109, perché escludeva i cittadini extraue titolari di permesso unico o soggiornanti di lunga durata dal diritto a una prestazione di sicurezza sociale (gli Anf), nel caso in cui i familiari risiedevano in paesi extra Ue, mentre riconosceva tale diritto ai propri cittadini che si trovano nella stessa situazione.
La decisione
Siccome dopo le decisioni il legislatore non si era adeguato la Corte di Cassazione ha chiesto alla Consulta se la decisione della Corte Europea fosse o meno dotata di efficacia diretta per il giudice nazionale oppure se richiedesse una declaratoria di incostituzionalità per rimuovere gli effetti discriminatori. La Consulta propende per la prima ipotesi affermando il legislatore ben può scegliere le modalità con cui eliminare la discriminazione ma il compito della rimozione degli effetti rimane affidato al giudice. Pertanto ha rigettato la richiesta indicando che il giudice nazionale è tenuto ad applicare direttamente la decisione della Corte Europea senza bisogno di attendere né un intervento legislativo né una pronuncia di incostituzionalità da parte della Consulta.