Inapp, il welfare italiano spende molto sulle pensioni, ma trascura il lavoro
La spesa sociale italiana è più alta della media europea: 28,3% contro il 26,9% secondo due ricerche presentate nel convegno dell'Inapp “Lavoro, welfare e sicurezza sociale: le nuove sfide”. Ma, la spesa è sbilanciata sul capitolo previdenziale e sui trasferimenti in denaro, mentre sono carenti i servizi di cura, assistenza, formazione e di politiche attive del lavoro.
L'Italia investe molto per la spesa sociale ma troppo poco per i servizi sociali e per le politiche attive del lavoro. Questo in sintesi è il quadro tracciato nel convegno organizzato dall'Inapp, “Lavoro, welfare e sicurezza sociale: le nuove sfide”, tenutosi a Roma il 30 marzo scorso, che ha presentato i risultati di due studi in materia tenuti in convenzione con l'Università Luiss Guido Carli – Sep e con il progetto europeo Mospi, Modernizing Social Protection Systems in Italy.
“Prevale un generale orientamento verso i trasferimenti monetari, e per lo più di natura previdenziale, è stato il commento del presidente dell'Istituto nazionale per l'analisi delle politiche pubbliche Sebastiano Fadda che ha così proseguito: “Per molti aspetti l’Italia sembra un paese che resta indietro anche rispetto alla nuova agenda di investimento sociale dettata a livello europeo”.
In particolare, secondo gli ultimi dati Eurostat risalenti al 2019, la spesa italiana per prestazioni sociali è superiore alla media europea: 28,3% del Pil contro il 26,9%. Ma solo lo 0,2% del Prodotto interno lordo italiano è dedicato ai sostegni per l'attivazione di chi cerca un lavoro. Molto al di sotto, quindi, del livello di altri paesi che prima e di più hanno ricalibrato il proprio sistema di welfare allineandolo con la nuova Agenda Sociale Europea.
La composizione della spesa sociale in Italia
Dal punto di vista della composizione della spesa sociale l'area di intervento «vecchiaia e superstiti» copre il 58,3% della spesa sociale, seguita da «malattia/salute e invalidità» (28,6%), «famiglia/figli» (3,9%), «disoccupazione» (5,7%) e «contrasto alla povertà ed esclusione sociale» (3,5%). Malgrado alcuni cambiamenti marginali, sottolinea l'Inapp, l'Italia continua a costituire nel panorama europeo un paese sbilanciato, da un lato per la scarsità di investimenti sociali (in capitale umano, in servizi di cura, conciliazione, politiche attive del lavoro) e dall'altro per un perdurante squilibrio verso i trasferimenti monetari.
Anche la recente introduzione di misure di sostegno al reddito e di lotta alla povertà come il ReI ed il Reddito di Cittadinanza, che pure si sono rilevati utili per attutire gli effetti della pandemia da Covid-19, si qualificano come trasferimenti monetari. Resta bassa la spesa per le politiche sociali e persiste un sovraccarico di funzioni di cura sulla famiglia.
Sul fronte del mercato del lavoro questo si traduce in una bassa partecipazione femminile e un basso livello dell'occupazione a più alto valore aggiunto. Questo effetto si può facilmente riscontrare nei bassi tassi di occupazione femminile: 49% nel 2020 contro la media europea del 62,7%. E rischia di pesare ancor di più, non solo in prospettiva, la crescita del cosiddetto lavoro «fragile» e di quello «povero», ovvero di un'occupazione più insicura e mal retribuita, con lavoratori sempre più vulnerabili ai cambiamenti della loro condizione occupazionale e del loro reddito.
Lavoro povero e lavoro fragile
Già prima della pandemia, nel 2019, le assunzioni a tempo determinato dalla durata inferiore a una settimana rappresentavano circa il 29% delle assunzioni a tempo determinato totali. I contratti dalla durata compresa tra una settimana e un mese, sebbene inferiori in valore assoluto, sono al contrario in aumento: da circa 50mila a più di 80mila. L'attivazione di contratti di lavoro con una durata fino a 6 mesi è tornata a crescere in maniera più evidente a partire dalla seconda metà del 2016.
Ad essere fragili, ovvero soggetti a precarietà e scarsa retribuzione non sono solo i dipendenti ma anche molti lavoratori autonomi, spesso fittizi o parasubordinati, che hanno il doppio del rischio di povertà ed esclusione sociale rispetto ai dipendenti.
Nella categoria dei fragili vi sono, infine, i «working poors» ovvero quelli che percepiscono stipendi molto bassi ancorché siano occupati a tempo indeterminato. Questo rischio è quasi doppio per i lavoratori a tempo parziale (il 15,8% dei casi contro il 7,8% che lavora a tempo pieno) e di tre volte superiore per chi svolge lavori temporanei (il 16,2% dei casi contro il 5,8% degli indeterminati).
Secondo l’Inapp questo mondo frastagliato di occupazione precaria e discontinua pone un duplice problema: quello della realizzazione di un salario minimo e quello di una tutela di chi non può raggiungere sufficienti contributi previdenziali.