La questione
Una lavoratrice dipendente del Ministero della Giustizia era stata assunta dal 2 dicembre 2000 con contratto a tempo determinato in relazione al collocamento dei lavoratori socialmente utili LSU (Legge n. 242/2000); il contratto era stato prorogato più volte sino al 28 dicembre 2008 quando in virtù della L. 296 del 2006 l'interessata aveva rassegnato le dimissioni in vista della stabilizzazione rapporto di lavoro avvenuta con la sottoscrizione di un contratto a tempo indeterminato con decorrenza dal 29 dicembre 2008.
L'Inps si opponeva all'erogazione del TFR maturato al 28 dicembre 2008 evidenziando che la lavoratrice era stata riassunta a tempo indeterminato lo stesso giorno delle dimissioni figurandosi una continuità previdenziale che, per i dipendenti del settore pubblico, non consente la liquidazione di plurimi TFR (a differenza del settore privato ove ad ogni cessazione del servizio il datore di lavoro provvede ad erogare il TFR accantonato).
A sostegno della tesi della continuità previdenziale l'Inps stressava il fatto che le mansioni, il datore di lavoro nonché la sede di lavoro erano rimaste praticamente le stesse delle precedenti e come, nel pubblico impiego, il TFR non è corrisposto dal datore di lavoro nell’ambito del rapporto bilaterale, ma dall’INPS, terzo rispetto al rapporto di lavoro. In definitiva secondo l'INPS l'applicazione della disciplina civilistica avrebbe necessitato una revisione delle aliquote contributive di riferimento per garantire l'equilibrio finanziario della gestione, mai intervenuta.
La decisione
Secondo la Cassazione la vicenda va ricostruita secondo l'orientamento già espresso dalle Sezioni Unite civili con la sentenza n. 24280 del 2014. In tale decisione è stata posta in evidenza l'opera di armonizzazione, avviata dalla legge n. 335/1995, dei molteplici trattamenti di fine servizio dei dipendenti pubblici contrattualizzati, assoggettati da una certa data in poi tutti alla disciplina privatistica dettata dall’art. 2120 cod. civ. Secondo l'impostazione privatistica il TFR spetta "in ogni caso di cessazione del rapporto di lavoro subordinato" e, pertanto, è venuta meno la tesi dell'infrazionabilità del trattamento di fine servizio pur in presenza di un’estinzione del rapporto di lavoro, quando ciò non implichi anche l'estinzione del rapporto previdenziale.
Nel solco di tale orientamento si è posta anche la recente sentenza n. 5895/2020 della Sezione lavoro della Cassazione in cui è stato affermato, tra l'altro, che "la esigibilità del TFR è ancorata ai medesimi presupposti previsti per il lavoro privato e, dunque, alla cessazione giuridica del rapporto di lavoro e non alla cessazione della iscrizione al fondo per il trattamento di fine rapporto, gestito dall’INPS". Secondo i giudici è dunque irrilevante, al pari di quanto previsto per il lavoro privato, la eventuale continuità temporale, in fatto, di più rapporti di lavoro, in forza della quale permanga la iscrizione al fondo; assume, invece, esclusivo rilievo ai fini della esigibilità del TFR la "cessazione dal servizio" ovvero la cesura sotto il profilo giuridico tra due rapporti di lavoro, seppure in successione temporale tra loro ed alle dipendenze della medesima amministrazione statale.
In coerenza con i principi sopra richiamati la Cassazione ha rigettato la tesi dell'INPS confermando le sentenze del Tribunale e della Corte d'Appello di Palermo che avevano accolto le doglianze della lavoratrice.