La questione era stata sollevata dalla corte dei conti della Lombardia, a seguito di un ricorso presentato da 81 pensionati contro l'Inps in cui lamentavano in particolare la proroga del mancato adeguamento della rivalutazione degli assegni di un altro anno, il 2014, dopo che già nel biennio 2012-2013 gli era stato negato l'adeguamento a seguito della Legge Fornero e del successivo decreto "Poletti" (decreto legge 65/2015) adottato dopo la sentenza della Corte Costituzionale numero 70 del 2015. I ricorrenti nelle loro doglianze osservavano che il combinato delle due normative aveva compresso il potere di acquisito del 5,78% nel biennio 2012/2013 e del 6,94% nel triennio 2012/2014. La questione rimessa alla corte, in particolare, riguardava, quindi, la violazione dell'art. 3 della costituzione per «difetto di ragionevolezza e di proporzionalità» rispetto all'articolo 24, commi 25, lett. b, c, d ed e, e il 25-bis del dl n. 201/2011, convertito dalla legge n. 214/2011 e modificato dal decreto legge 65/2015 nonchè il n. 1, comma 483 della legge n. 147/2013.
La decisione della Consulta
La Corte Costituzionale ha dichiarato manifestamente infondata la questione sollevata dalla Corte dei Conti sulla base di due ordini di motivazioni. La prima perché con la sentenza n. 250/2017 la suprema Corte aveva già dichiarato la legittimità costituzionale del meccanismo di rivalutazione introdotto, con riferimento agli anni 2012 e 2013, dal decreto legge Poletti (Dl 65/2015) avendo tale meccanismo assicurato i «criteri di progressività» nel rispetto del dettato costituzionale. Il legislatore con l'intervento del 2015 ha tutelato le esigenze finanziarie mediante sacrificio parziale e temporaneo dell'interesse dei pensionati, con la scelta «non irragionevole» di riconoscere la rivalutazione in misure decrescenti con l'aumentare dell'importo complessivo delle pensioni percepite, fino ad escluderla nel caso di pensionati con trattamenti superiori a sei volte il minimo Inps (oltre 38 mila euro annui).
La seconda motivazione riguarda, invece, il meccanismo perequativo introdotto dal 1° gennaio 2014 con la legge di bilancio del Governo letta (articolo 1, co. 483 della legge 143/2013) che, come noto, per il solo anno 2014 aveva negato la perequazione per i trattamenti superiori a sei volte il minimo inps (prorogando in sostanza di un altro anno il blocco della rivalutazione nei confronti dei pensionati con prestazioni superiori a tale importo).
Ebbene la Corte richiama quanto già sancito con la sentenza n. 173 del 2016, con la quale, nell’esaminare l’intero comma 483 della più volte citata legge 143, i giudici avevano statuito la costituzionalità di tale intervento sulla base del fatto che la norma incriminata ha previsto, per il triennio 2014-2016, una rimodulazione nell’applicazione della percentuale di perequazione automatica sul complesso dei trattamenti pensionistici, "con l’azzeramento per le sole fasce di importo superiore a sei volte il trattamento minimo INPS e per il solo anno 2014”, ispirandosi “a criteri di progressività, parametrati sui valori costituzionali della proporzionalità e della adeguatezza dei trattamenti di quiescenza”.
In sostanza il blocco della perequazione dei trattamenti superiori a sei volte il minimo inps nel biennio 2012-2013 e poi nell'anno 2014 è legittimo. E ciò anche considerando che la mancata rivalutazione non preveda alcuna forma di recupero e produca i propri effetti anche sulla perequazione per gli anni successivi per il principio del cd. trascinamento "trattandosi di normali conseguenze, in difetto di specifiche disposizioni di segno contrario, delle misure di blocco della perequazione".