- Roma, 29 set. - Era da tempo che non si assisteva piu' ad un dibattito cosi'. Quasi come in un congresso democristiano, come quando nel 1985 De Mita se la prese con Franco Marini e il Palazzo dello Sport di Roma si trasformo' in un ring. Niente cazzotti, oggi alla direzione del Pd, ma tanta tanta cattiveria. Botte - verbali - senza esclusione di colpi.
Attacca, come facile prevedere, Matteo Renzi. Parla 44 minuti riprendendo fiato solo ogni tanto. Il mandato al Pd di cambiare le regole sul mercato del lavoro e' arrivato con il voto del 25 maggio, spiega, quando il Partito Dermocratico (cioe': lui stesso) ottenne il 41 per cento dei consensi. Quindi sia chiaro: "Le mediazioni vanno bene, i compromessi vanno bene, ma non a tutti i costi". E se qualcuno ancora non capisce, "se vogliamo dare diritti ai lavoratori, non lo facciamo difendendo una battaglia che non ha piu' ragione di essere".
Quanto ai sindacati, "sono disponibile a confrontarmi la settimana prossima. Con Cgil, Cisl e Uil. Li sfido su tre punti: una legge della rappresentanza sindacale, salario minimo, il collegamento con la contrattazione di secondo livello".
I diretti interessati, nel frattempo, non sono in gradio di elaborare una "piattaforma comune" in materia e rimandano la decisione al 6 ottobre. Con la Cgil che intanto fa sapere di confermare la manifestazione gia' proclamata per il 25 del prossimo mese.
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E' un'apertura, quella di Renzi? Chi lo sa. Per Franco Marini, proprio quello del 1985, si' e forse no. Va colta ma con beneficio d'inventario. Pero' potrebbe andar bene. "Un'apertura c'e' stata", rileva, ora bisogna salvare l'unita' del partito. A sentire certi interventi, di aperture e compromessi non parrebbe aria. Ma e' vero che si sta lavorando al documento finale. Alcuni esponenti di Area riformista, mentre e' ancora in corso la riunione della direzione, giudicano la relazione di Matteo Renzi come un punto di partenza. Per il momento la minoranza della sinistra e' orientata a un voto di astensione, ma tutto, spiegano, dipendera' da come sara' scritto il documento finale.
Nel frattempo dal palco sono botte da orbi. Parte, con fare garbato, Gianni Cuperlo. Si rivolge al segretario: "Tu sei il segretario del mio partito e non sei la reincarnazione della signora Thatcher, che peraltro sarebbe una reincarnazione venuta molto male. Ma dovresti cercare qui e nei gruppi parlamentari una mediazione".
E' solo l'inizio. Infatti subito dopo va al microfono Massimo D'Alema, ed il suo e' un pezzo da repertorio. "L'articolo 18 non c'e' piu', ma da due anni", esordisce. Poi affonda una prima volta: "Le parole devono essere ancorate alla realta', non e' obbligatorio sapere i fatti ma sarebbe consigliabile per governare". E passa a rinfrescare la memoria al segretario-premier: 1)la diminuzione del costo del lavoro fu fatta dal governo Prodi; 2)la riforma del mercato del lavoro e' stata fatta due anni fa e che l'articolo 18 e' ormai residuale; 3) "Non e' neppure vero che nessuno ha fatto nulla per estenderlo, abbiamo cercato di farlo con un referendum ma non ci siamo riusciti". Quarto punto: "Non si racconta che la riforma non e' stata fatta per 44 anni, qualcuno che le cose le sa ancora c'e'". Termina con una stilettata riservata a tutto il gruppo dirigente. Cita il Premio Nobel, Stiglitz, e lo definisce "titolare di un rinoscimento internazionale che i giovani dirigenti del partito non hanno ancora fatto in tempo ad ottenere". Risate feroci in sala.
Il punto piu' dolente, pero', lo tira fuori Pier Luigi Bersani, che va al microfono poco dopo. "Sull'orlo del baratro ci andiamo non per l'articolo 18, ma per il metodo Boffo...Voglio poter discutere prima del 'prendere o lasciare'", sottolinea con una piega amara della bocca, "La Germania ce l'ha l'articolo 18 e ha preso quattro punti in piu' di Pil. Dobbiamo partire da li' e ricostruire una base produttiva". La trattativa continua. Partendo da una base di reciproca incomprensione.