Prestazioni Non Assistenziali, il requisito di residenza degli stranieri è di cinque anni

Venerdì, 21 Marzo 2025
È quanto ha ribadito la Corte costituzionale, in termini di interpretazione costituzionalmente orientata, nella sentenza numero 31, precisando che a questa conclusione non è «d’ostacolo la recente sentenza della Corte di giustizia dell’Unione europea, grande sezione, 29 luglio 2024»

Deve essere di cinque anni (e non dieci) il termine idoneo a costituire il requisito di pregressa residenza per il diritto a prestazioni non assistenziali. Questo termine è sufficiente, infatti, a dimostrare la «relativa stabilità di presenza sul territorio», nonché il «radicamento del richiedente», cittadino extraUe, in un Paese come vuole la Corte di giustizia europea (sentenze 29 luglio 2024) al fine di evitare ogni discriminazione fra i cittadini: italiani, comunitari, extracomunitari.

E’ il principio fissato dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 31/2025 depositata il 20 marzo 2025, relativa al riconoscimento del reddito di cittadinanza (abrogato il 1° gennaio 2024).

La Questione

Inizia alcuni anni fa a seguito del ricorso di alcuni cittadini romeni contro il diniego dell’Inps al riconoscimento del reddito di cittadinanza per il quale, tra l’altro, occorreva una residenza in Italia pregressa di almeno 10 anni di cui gli ultimi due in via continuativa. La questione di legittimità costituzionale è stata sollevata dalla Corte d’Appello di Milano nel 2022 sospettando che la norma determina una discriminazione indiretta nei confronti dei cittadini degli altri Stati membri dell’Unione europea. La stessa previsione si porrebbe in contrasto anche con la parità di trattamento e con il divieto di discriminazione previsti dal diritto dell’Unione.

Per il giudice rimettente in particolare, il requisito dei dieci anni non risponderebbe «ai requisiti di ragionevole correlabilità» con il Rdc, dato che tale «tempo sproporzionato» di residenza, sebbene richiesto «indifferentemente per italiani e stranieri», determinerebbe quantomeno una discriminazione indiretta a danno dei cittadini di altri Stati membri.

La decisione

Ribadendo precedenti decisioni la Corte costituzionale spiega, prima di tutto, che il Rdc non ha natura assistenziale. Ciò per la peculiarità della sua struttura e funzione, dove la componente d’integrazione del reddito (che lo fa sospettare di essere misura assistenziale) è condizionata al conseguimento di obiettivi d’inserimento nel mondo del lavoro e, comunque, d’inclusione sociale che richiedono il coinvolgimento del beneficiario. Del resto il Rdc non consiste nel mero sussidio economico che risponde a situazioni di povertà, perché la sua erogazione è inscindibile, tra l’altro, dall’impegno del beneficiario ad attivarsi per l'uscita dalla sua condizione di povertà.

Per tale ragione secondo la Corte è ragionevole la previsione di un requisito di radicamento territoriale, cioè di pregressa residenza. A conforto, la Corte richiama la raccomandazione Ue del 30 gennaio 2023 (sul reddito minimo) che consente agli stati membri di far ricorso a criteri selettivi basati sulla residenza protratta, anche al fine, tra l’altro, di salvaguardare «la sostenibilità delle finanze pubbliche».

Un requisito di residenza pregressa, peraltro, non appare, di per sé, afferma la Corte determinare una violazione del divieto di discriminazione indiretta e delle relative disposizioni del diritto dell’Unione, che pure vengono in considerazione nella questione in esame. Per quanto un tale requisito ponga di fatto il cittadino italiano in una posizione più favorevole, non di meno la discriminazione indiretta ben può ritenersi giustificata quando sussistono ragioni che la rendono necessaria e proporzionata.

Cinque anni

Fatte queste premesse la Corte, tuttavia, osserva che «il periodo di residenza decennale istituisce una barriera temporale all’accesso al Rdc che trascende del tutto la ragionevole correlazione con sue le finalità», violando i principi di eguaglianza, ragionevolezza e proporzionalità di cui all’art. 3 della Costituzione. A differenza di altre misure, come l’assegno sociale, che ha superato il vaglio costituzionale il progetto di inclusione previsto dal Rdc «non guarda, come invece le suddette misure, al concorso realizzato nel passato, ma alle chances dell’integrazione futura, mirando alla prospettiva dello stabile inserimento lavorativo e sociale della persona coinvolta». In quest’ottica il gravoso termine del pregresso periodo decennale non appare ragionevolmente correlato alla funzionalità precipua del Rdc e si pone in violazione dei principi di eguaglianza, di ragionevolezza e proporzionalità di cui all’art. 3 Cost.

Anche qui, a proprio conforto, la Corte richiama l’Ue: la procedura d'infrazione verso l’Italia per discriminazione e proprio sul requisito decennale del Rdc, chiusa soltanto a seguito dell’abrogazione del Rdc e la sostituzione con l’assegno d’inclusione dove il termine di residenza pregressa è ridotto a cinque anni. In definitiva la Corte afferma il principio secondo cui «il termine di cinque anni si presenta come una grandezza pre-data, idonea a stabilire il requisito di radicamento territoriale».

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