La normativa spagnola che nega alla categoria dei collaboratori domestici, composta quasi esclusivamente da donne, l'indennità di disoccupazione è contraria al diritto dell’Unione in quanto discriminatoria. In particolare, il sistema iberico risulterebbe in contrasto con due direttive sulla parità in materia di sicurezza sociale (Direttive 79/7/CEE e 2006/54/CE).
Lo ha stabilito la Corte di Giustizia Europea nella sentenza n. C-389/20 del 24 febbraio ravvisando gli estremi di una discriminazione indiretta a svantaggio delle lavoratrici.
La questione
Riguarda una collaboratrice domestica spagnola, che nel 2019 si è vista rifiutare la domanda volta al versamento dei contributi per la tutela contro la disoccupazione perché la legislazione spagnola non la riconosce per questa categoria di lavoratori. È seguito un ricorso di fronte al Tribunale che, a sua volta, ha sottoposto il caso alla Corte UE per sospetta violazione della Direttiva 79/7/CEE sulla parità nei trattamenti di sicurezza sociale.
Secondo il Tribunale spagnolo, infatti, la normativa nazionale impone una discriminazione indiretta fondata sul sesso violando il principio di parità nei sistemi di protezione sociale considerato che il 95% dei collaboratori domestici in Spagna è composto da donne.
La Corte Ue ha condiviso tali preoccupazioni ricordando che una discriminazione indiretta fondata sul sesso si realizza quando una disposizione apparentemente neutra ponga in una situazione di particolare svantaggio le persone di un determinato sesso a meno che la discriminazione «sia oggettivamente giustificata e proporzionata». Nel caso di specie era di tutta evidenza che la normativa nazionale negando la tutela contro la disoccupazione ai collaboratori domestici stava in realtà discriminando le donne largamente impiegate in tali attività.
La Sentenza
La Corte, quindi, ha affermato il principio secondo cui: “L’articolo 4, paragrafo 1, della direttiva 79/7/CEE del Consiglio, del 19 dicembre 1978, relativa alla graduale attuazione del principio di parità di trattamento tra gli uomini e le donne in materia di sicurezza sociale, deve essere interpretato nel senso che esso osta a una disposizione nazionale che esclude le prestazioni di disoccupazione dalle prestazioni di sicurezza sociale riconosciute ai collaboratori domestici da un regime legale di sicurezza sociale, qualora tale disposizione ponga in una situazione di particolare svantaggio i lavoratori di sesso femminile rispetto ai lavoratori di sesso maschile, e non sia giustificata da fattori oggettivi ed estranei a qualsiasi discriminazione fondata sul sesso”.
Previdenza spagnola e lavoro domestico: la critica della Corte
Nella decisione viene mossa anche una critica di carattere più generale. Il Governo spagnolo, infatti, ha sostenuto che l’esclusione dei collaboratori domestici dalla tutela contro la disoccupazione è connessa alle specificità di tale settore professionale, tra le quali rientra lo status dei datori di lavoro su cui tale ulteriore contribuzione graverebbe. Datori di lavoro non professionali che, secondo questa visione, sarebbero disincentivati a procedere alle regolarizzazioni. Tale esclusione infatti “risponde a obiettivi di salvaguardia dei livelli occupazionali e di lotta contro il lavoro illegale e la frode sociale”.
La Corte non nega che gli obiettivi citati siano legittimi dal punto di vista della politica sociale, ma ritiene che la normativa spagnola non sia idonea a conseguire tali obiettivi, perché colpita da diverse difformità. Infatti, rileva la Corte, la categoria di lavoratori esclusa dalla tutela contro la disoccupazione non si distingue in modo pertinente da altre categorie di lavoratori che non lo sono e che rispondono alle stesse caratteristiche. Altre tipologie di lavoratori che prestano la propria attività a domicilio presso datori di lavoro non professionali, infatti, presentano rischi analoghi in termini di riduzione dei livelli occupazionali, di frode sociale e di ricorso al lavoro illegale, ma sono tutte coperte dalla tutela contro la disoccupazione.