Come noto l'indennità di accompagnamento è una prestazione di assistenza non reversibile, regolata dalla legge 18/1980, alla quale hanno diritto gli invalidi civili, residenti in Italia, totalmente inabili che si trovano nell'impossibilità di deambulare senza l'aiuto permanente di un accompagnatore o, non essendo in grado di compiere gli atti quotidiani della vita, necessitano di un'assistenza continua. L'indennità viene erogata a tutti i cittadini italiani o Ue residenti in Italia, ai cittadini extracomunitari in possesso del permesso di soggiorno Ce per soggiornanti di lungo periodo a condizione, sempre, che siano residenti nel nostro territorio. Per il riconoscimento del beneficio non sono previsti limiti minimi e massimi di età.
Ebbene secondo i giudici di Piazza Cavour l'indennità di accompagnamento va riconosciuta anche in favore di coloro i quali, pur essendo materialmente capaci di compiere gli atti elementari della vita quotidiana (quali nutrirsi, vestirsi, provvedere alla pulizia personale, assumere con corretta posologia le medicine prescritte) necessitano della presenza costante di un accompagnatore in quanto, in ragione di gravi disturbi della sfera intellettiva, cognitiva o volitiva dovuti a forme avanzate di gravi stati patologici o a gravi carenze intellettive, non sono in grado di determinarsi autonomamente al compimento di tali atti nei tempi dovuti e con modi appropriati per salvaguardare la propria salute e la propria dignità personale senza porre in pericolo sé o gli altri.
La capacità dell'assistito di compiere gli elementari atti giornalieri deve intendersi non solo in senso fisico, cioè come mera idoneità ad eseguire in senso materiale detti atti, ma come capacità di intenderne il significato, portata ed importanza, anche ai fini della salvaguardia della propria condizione psico-fisica. In altre parole, l'incapacità richiesta per il riconoscimento dell'indennità di accompagnamento non va tanto rapportata al numero degli elementari atti giornalieri che il richiedente può compiere, quanto alla possibilità che egli ne comprenda la portata e le loro ricadute, con particolare riferimento alla "salvaguardia della sua dignità come persona".
Secondo la Corte, pertanto, il beneficio economico deve essere riconosciuto anche ai malati psichici non in grado di autodeterminarsi pur potendo fisicamente compiere gli atti della propria vita quotidiana. La decisione si situa nel solco già in passato tracciato dalla medesima giurisprudenza di legittimità.
si veda ex multis Cass. 3299/2001 riguardo a deficit organici e cerebrali fin dalla nascita che rendevano il soggetto incapace di "stabilire autonomamente se, quando e come" svolgere gli atri elementari della vita quotidiana, riferendosi l'incapacità non solo agli atti fisiologici giornalieri "ma anche a quelli direttamente strumentali, che l'uomo deve compiere normalmente nell'ambito della società"; per un deficit mentale da sindrome plico-organica derivante da microlesioni vascolari localizzate nella struttura cerebrale e destinate a provocare, nel tempo, una vera e propria demenza, non poteva sopravvivere senza l'aiuto costante del prossimo (Cass. 667/2002); per un deterioramento delle facoltà psichiche (in un quadro clinico presentante tra l'altro ictus ischemico e diabete mellito), mostrava una "incapacità di tipo funzionale", di compiere cioè "l'atto senza l'incombente pericolo di danno (per l'agente o per altri)" (Cass. 4389/2001); per oligofrenia di grado elevato, con turbe caratteriali e comportamentali, era incapace di parlare se non con monosillabi e di non riconoscere gli oggetti, versando così in una situazione di bisogno di una continua assistenza non solo per l'incapacità materiale di compiere l'atto, ma anche "per la necessità di evitare danni a sè e ad altri" (Cass. 5017/2002); si veda anche Cass. 28705/2011, con riguardo ad una diagnosi di "psicosi schizofrenica paranoidea (demenza precoce)".