Quest'anno l'Italia (ma non solo il nostro paese) vedrà un tracollo storico del prodotto interno lordo a causa del lockdown e dell'espandersi della pandemia del COVID-19. Molti lettori sono preoccupati circa gli effetti diretti ed indiretti che questa crisi potrà avere sulle pensioni, già duramente colpite da anni di tagli. Com'è noto, infatti, in base alla riforma Dini il montante contributivo (quel tesoretto che viene annualmente messo da parte dai lavoratori con il versamento dei contributi previdenziali) viene annualmente rivalutato in base all'andamento della crescita nominale del prodotto interno lordo degli ultimi 5 anni (il cd. tasso di capitalizzazione). Cosa potrebbe accadere, quindi, se nel 2020 il PIL subisse una contrazione dell' 8-10%?
I lavoratori interessati
Prima di tutto bisogna chiarire che l'effetto della contrazione del PIL non interessa le coorti di lavoratori che andranno in pensione nel 2020 o nel 2021. Ciò in quanto l'annualità 2020 per entrare a far parte della media quinquennale su cui si determina il tasso di capitalizzazione ha bisogno di un biennio dalla comunicazione del PIL. L'ultimo tasso di capitalizzazione pubblicato, quello nel 2019 che riguarda i pensionamenti tra il 1° gennaio 2020 ed il 31 dicembre 2020, infatti, è stato calcolato sulla base della media della crescita nominale del prodotto interno lordo del quinquennio 2014-2018. Ciò significa che la riduzione del PIL registrata nel 2020 avrà effetti sul tasso di capitalizzazione del 2021 e coinvolgerà, quindi, i pensionamenti dal 1° gennaio 2022 al 31 dicembre 2022. Non bisogna quindi affrettarsi ad andare in pensione entro il 31 dicembre 2020 per evitare l'applicazione di un tasso di rivalutazione più sfavorevole.
La svalutazione?
Detto questo è lecito aspettarsi che il tasso di capitalizzazione del 2021 risulterà negativo in quanto la perdita registrata nel 2020 non sarà compensabile dalle precedenti annualità che concorrono a formare il tasso stesso. Quindi quel tesoretto dei contributi accumulati verrà svalutato? La risposta è no.
Fortunatamente (si colga il senso ironico) ci siamo già trovati in questa situazione nel 2015 quando per la prima volta la variazione media quinquennale del PIL è risultata negativa a causa della depressione degli anni precedenti (2008-2011). In quell'occasione il legislatore ha avuto l'accortezza di stabilire un principio (Art. 5, co. 1, DL 65/2015, il cd. Decreto Poletti) secondo il quale il coefficiente di rivalutazione del montante contributivo come determinato adottando il tasso annuo di capitalizzazione non può essere inferiore a uno, salvo recupero da effettuare sulle rivalutazioni successive.
Ciò significa che anche i lavoratori che andranno in pensione nel 2022 non potranno subire alcuna contrazione del montante accumulato ancorchè il tasso di capitalizzazione risultasse negativo. Per questi soggetti il montante dell'ultimo anno di rivalutazione non aumenterà in quanto gli sarà assegnato un coefficiente pari ad uno. L'effetto è destinato, tuttavia, a protrarsi anche negli anni immediatamente successivi stante la previsione secondo la quale la mancata svalutazione debba essere recuperata sulle rivalutazioni successive (che si presumono positive a seguito del rimbalzo del Pil nel 2021) se superiori ad uno.
In definitiva la crisi del Pil non comporterà la perdita dei contributi versati ma solo l'ulteriore stagnazione di un meccanismo di rivalutazione già in crisi, a dire il vero, da oltre un decennio. Versare i contributi all'Inps oggi rende poco (in media l'1%), con questa crisi renderà praticamente zero. Probabilmente sarà l'occasione per un inserire un ulteriore correttivo legislativo nei prossimi anni.
Naturalmente queste considerazioni non valgono per chi è già in pensione: qui la rivalutazione dell'assegno annuo è legata all'inflazione e non al PIL.