Rivalutazione Pensioni, Morando al Senato: non restituiremo tutto. Documento

redazione Giovedì, 14 Maggio 2015

Riportiamo le dichiarazioni ufficiali del Vice ministro dell'economia e delle finanze Morando rilasciato ieri, in Commissione Bilancio al Senato, sugli effetti, sul bilancio dello Stato, delle recenti sentenze della Corte costituzionale in materia di Robin tax e di rivalutazione delle pensioni. Kamsin Il vice ministro ha indicato alla Commissione che il Governo non ha ancora assunto delle determinazioni sulle puntuali modalità di adempimento del dispositivo della sentenza in materia di rivalutazione delle pensioni, cosa che avverrà nelle prossime settimane. Ma ha avvertito che la decisione della Consulta lascia spazio di manovra al Governo per non restituire quanto sarebbe dovuto.

Cio' perchè, a detta del Viceministro, la sospensione introdotta con il Salva Italia nel 2011 ha avuto una durata biennale ed ha inciso anche sui trattamenti pensionistici di importo meno elevato a differenza di quanto previsto dalla normativa precedente e a quella successiva che la Corte stessa ribadisce di considerare legittime. Pertanto secondo Morando, la sentenza della Corte può e deve essere pienamente rispettata attraverso un intervento che rimuova quelle componenti dell’intervento del dicembre 2011 che la Corte censura.

Dal punto di vista tecnico, la vicenda si è originata con il decreto-legge n. 201 del 2011, la cui relazione tecnica è, dunque, la base di riferimento per la quantificazione dell'ammontare di risorse coinvolto. Dato il rilievo che l’intervento sulla parziale deindicizzazione delle pensioni aveva per il conseguimento degli obiettivi di finanza pubblica, la relazione stessa illustra la platea degli interessati e definisce i risparmi attesi, sia al lordo, sia al netto del prelievo IRPEF.

Nel dettaglio si tratta, per l'anno 2012 di 3,8 miliardi lordi e 2,9 miliardi netti, per l'anno 2013 di 6,7 miliardi lordi e 4,9 netti, per l'anno 2014 di 6,7 miliardi lordi e 4, 9 netti, per l'anno 2015 6,6 miliardi lordi e 4,9 netti, con andamento analogo negli anni successivi, per arrivare al 2018, quando l'onere è quantificato in 6,4 miliardi lordi e 4,7 miliardi netti.

La relazione  metteva quindi in aperta evidenza che l’intervento di "blocco" dell’adeguamento 2012-2013 aveva un effetto permanente  di riduzione della spesa previdenziale, pari, al netto delle imposte, a più di 4,5 miliardi l’anno (la relazione tecnica limita l’esame al 2018, ma è evidente che gli effetti erano destinati a perdurare anche oltre questa data). La relazione tecnica originaria viene aggiornata, al momento del passaggio da una Camera all’altra, dopo ciascuna lettura: si chiama "relazione tecnica al passaggio": sulla questione che qui interessa, la tabella originaria subisce una rilevante modificazione.  Per l'anno 2012 si hanno, infatti,  2,4  miliardi lordi e  1,8 netti, per l'anno 2013, 4,2 lordi e 3,1 netti, per l'anno 2014, 4,2 lordi e 3,1 netti, per l'anno 2015, 4,1 lordi e 3,1 netti, per l'anno 2016 4,1 lordi e  3,0 netti, per l'anno 2017, 4,1 lordi e  3 netti,  per l'anno 2018,  4 lordi e 2,9 netti.

Questi mutamenti sono stati determinati dalla diversa definizione dei presupposti del calcolo. La relazione tecnica originaria assumeva a base la quota percentuale del monte pensioni corrispondente a pensioni superiori a due volte il minimo INPS: si trattava di circa il 76,5 per cento di tale grandezza. Nella relazione tecnica di passaggio la quota è quella relativa a pensioni superiori a tre volte il minimo: circa 54 per cento del monte pensioni pagato e da pagare nel 2011 e nel 2012. Non è un particolare di poco conto: il "peso" del blocco, che prima gravava su tre euro ogni quattro del monte pensioni complessivo, ora grava su un euro ogni due.

Governo e Parlamento avevano dunque tenuto ben presente l’esigenza di contemperare i due obiettivi in gioco: realizzare subito importanti risparmi di spesa, per evitare il possibile collasso finanziario, senza penalizzare gli interessi della platea dei pensionati più poveri, se conferma il rilievo della misura di "blocco" dell’adeguamento rispetto alla correzione complessiva del tendenziale realizzata dal decreto-legge (del resto resa evidente anche dal prospetto riepilogativo collocato dalla Ragioneria generale dello Stato in apertura della relazione tecnica di passaggio), ma si dà conto di significative variazioni intervenute nella lettura parlamentare del decreto-legge.

Risulta quindi acclarato che, in sede di conversione, è dato riscontrare non solo la presenza della documentazione tecnica circa le "attese maggiori entrate", di cui parla la sentenza,  (che sono però da intendersi come "minori spese"), ma anche lo sviluppo di un confronto politico circa i caratteri dell’intervento e il suo impatto sociale. Si può dunque concludere che la dialettica Governo-Parlamento si sia pienamente sviluppata proprio sul tema del ragionevole equilibrio tra "esigenze finanziarie" (sottolineate dal Governo con la decisione di "coprire" con l’indicizzazione al 100 per cento le pensioni fino a due volte il trattamento minimo) e i "diritti oggetto di bilanciamento". Equilibrio - malgrado la forte correzione introdotta (il monte pensioni pagate interessato dal blocco ridotto del 25 per cento circa) -  che si può ritenere ancora troppo spostato verso le "esigenze finanziarie". Non si può negare, tuttavia, che questo equilibrio sia stato consapevolmente ricercato. E che questa ricerca si sia sviluppata assumendo a base informazioni tecniche "di dettaglio".

Ci si può chiedere se fosse  veramente  difficile la "contingente situazione finanziaria" di quel fine novembre – inizio dicembre 2011. La sentenza sembra dubitarne quando afferma che la disposizione concernente l’azzeramento del meccanismo perequativo si limita a richiamare genericamente la contingente situazione finanziaria,  e poco oltre a dire che tale diritto (quello ad una prestazione previdenziale adeguata), costituzionalmente fondato, risulta irragionevolmente sacrificato nel nome di esigenze finanziarie non illustrate in dettaglio". Il comma 25 dell’articolo 24 del decreto-legge recita testualmente: "In considerazione della contingente situazione finanziaria".

Ma quel comma è parte – quantitativamente essenziale, come già visto – dell’articolo 24, che così recita, al comma 1: "Le disposizioni del presente articolo (tutte, compresa quella recata dal comma 24) sono dirette a garantire, il rispetto degli impegni internazionali e con l’Unione Europea, dei vincoli di bilancio, la stabilità economico-finanziaria e a rafforzare la sostenibilità di lungo periodo del sistema pensionistico in termini di incidenza della spesa previdenziale sul PIL, in conformità dei seguenti principi e criteri: equità e convergenza intra e intergenerazionale, con clausole derogative soltanto per le categorie più deboli".

[...omissis..] C’è chi sostiene che la sentenza non lasci spazio ad alcuna interpretazione: dichiarato illegittimo il comma 25 dell’articolo 24 del decreto 201, essa determinerebbe il ritorno alla legislazione vigente in materia di indicizzazione delle pensioni prima del dicembre 2011. Con le conseguenze finanziarie che sono ben illustrate dalla relazione tecnica originale al Decreto e alla relazione tecnica di passaggio sopra richiamata. Il Ministro dell’economia ha già messo in evidenza che, in questo modo, gli effetti sui conti pubblici sarebbero tali da determinare, contemporaneamente, la violazione della regola del 3 per cento nel rapporto indebitamento/PIL; la violazione della regola relativa al ritmo di avvicinamento all’Obiettivo di Medio Termine (il pareggio strutturale); la violazione della regola del debito.

Conseguenza inevitabile: la riapertura immediata della procedura di infrazione, per violazione delle tre regole fondamentali del Patto di Stabilità e Crescita Europeo. Ma è la stessa Corte, nella sentenza, a chiarire che non è questo il significato della sua decisione. Al punto 5 della sentenza, la Corte – nel dichiarare fondata la questione prospettata con riferimento agli articoli 3, 36 primo comma e 38, secondo comma, della Costituzione – ripercorre gli interventi legislativi messi in atto nel corso degli anni in tema di indicizzazione delle pensioni, e conclude che la disciplina generale prevede che soltanto le fasce più basse siano integralmente tutelate dalla erosione indotta dalle dinamiche inflazionistiche. Al punto 6 della sentenza la Corte esamina il susseguirsi nel tempo degli interventi di sospensione del meccanismo perequativo, e conclude richiamando la sentenza della Corte stessa n. 316 del 2010, con la quale ha reputato non illegittimo l’azzeramento (si intende ovviamente l’azzeramento dell’adeguamento ai prezzi), per il solo anno 2008, dei trattamenti pensionistici di importo elevato. Nel punto 7, la Corte rileva infine che quanto disposto dal comma 25 dell’articolo 24 del decreto salva Italia si discosta in modo significativo dalla regolamentazione precedente. Non solo la sospensione ha una durata biennale; essa incide anche sui trattamenti pensionistici di importo meno elevato.

La Corte rileva altresì’ che le soluzioni adottate dal decreto salva Italia si differenziano anche dalla legislazione ad esso successiva: nel 2014-2016, infatti, la legge n. 147 del 2013 (legge di Stabilità) ha stabilito che la perequazione si applichi  - con la tecnica degli scaglioni - al 100 per cento sulla quota di pensione fino a tre volte il minimo, al 95 per cento per la quota di pensione da tre a quattro volte il minimo, al 75 per cento per la quota di pensione fino a cinque volte il minimo, al 50 per cento per la quota di pensione fino a 6 volte. E ha bloccato integralmente la perequazione per il solo 2014 e solo per le fasce di importo superiore a sei volte il trattamento minimo.

Il giudizio della Corte sulla norma dichiarata illegittima trova quindi fondamento sulla riscontrata diversità dell’intervento del dicembre 2011 rispetto alle misure precedenti e successive (che la Corte stessa ricorda di aver considerato legittime con sue sentenze del passato; e mostra di continuare a considerare legittime anche nel presente, quando illustra – senza avanzare riserve - le caratteristiche dell’intervento deciso con legge di Stabilità per il triennio 2014-2016).

Due le ragioni del giudizio di diversità, rispetto ai precedenti, dell’intervento del decreto salva Italia: la durata biennale (e non annuale) del blocco dell’adeguamento ai prezzi; la mancata progressività del blocco, in rapporto alle diverse fasce di pensione percepita (sopra tre volte il minimo, l’adeguamento ai prezzi è interamente bloccato su tuttol’importo della pensione, non solo sulla quota eccedente tre volte il minimo). La Corte, dunque, ritiene che per queste due ragioni – durata e mancata progressività – la norma violi il principio di adeguatezza (articolo 38, secondo comma della Costituzione) e quello di sufficienza (articolo 36, primo comma della Costituzione) del trattamento pensionistico.

Dunque, la sentenza della Corte può e deve essere pienamente rispettata attraverso un intervento che rimuova quelle componenti dell’intervento del dicembre 2011 che la Corte censura. Stiamo lavorando per mettere a punto un intervento che abbia le caratteristiche suggerite dalla sentenza della Corte. È necessario farlo in tempi brevi, ma anche secondo modalità e con scelte e tecniche di copertura finanziaria che consentano di rispettare le regole fissate, in materia di tenuta dei conti pubblici e di decisione di bilancio, dalla Costituzione e dal Patto di Stabilità e Crescita che lega l'Italia agli altri Paesi dell’Unione.

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