Fissare un coefficiente di trasformazione più alto per la liquidazione della pensione di vecchiaia per il comparto difesa e sicurezza in luogo dell’istituzione della previdenza complementare. Cioè quello corrispondente all’età anagrafica per la pensione di vecchiaia del personale civile, 67 anni, in luogo di quello legato all’età di decorrenza della pensione che, come noto, per il personale in divisa viene traguardata con largo anticipo in considerazione delle specificità riconosciute dall’ordinamento.
E’ la proposta presentata dal Siulp e dal Siap, i sindacati che rappresentano il personale della Polizia di Stato, lo scorso 20 aprile a Roma nel corso di una riunione con i vertici del Corpo; idea già circolata nei mesi scorsi tra gli addetti ai lavori come soluzione alla mancata attuazione della previdenza complementare per il settore pubblico non contrattualizzato.
Previdenza integrativa
Intende superare la mancata attuazione della previdenza integrativa per il personale militare e delle forze dell’ordine; questione che si trascina da oltre vent’anni e che ultimamente ha subito una brusca battuta di arresto a causa anche della strada intrapresa da diversi assicurati.
Errato, infatti, aver chiesto il risarcimento del danno derivante dalla mancata attuazione della previdenza complementare (obbligo previsto dalla legge n. 335/1995). Secondo la magistratura contabile il danno risarcibile va collegato alla comparazione con altri fondi integrativi, stabilendo che il ristoro debba essere commisurato ad un «quarto della differenza eventualmente riscontrata tra il rendimento conseguito da chi già ha attivato la previdenza complementare – pertanto con la trasformazione del TFS in TFR - e chi invece ha mantenuto il tradizionale sistema di trattamento di fine servizio».
Una beffa considerato che il personale in divisa gode di numerosi benefici sul TFS (sei scatti, tassazione agevolata, riscatto del quinto) che da soli portano in dote dai 12 ai 18 mila euro a seconda della qualifica rivestita, cifra difficilmente recuperabile in un regime di TFR in un periodo, peraltro, in cui i rendimenti dei fondi di previdenza complementare sono risibili.
In sostanza passare alla previdenza integrativa con le stesse modalità previste per la generalità degli altri dipendenti pubblici sarebbe svantaggioso. La magistratura contabile, peraltro, ha pure bocciato l’ipotesi di mantenere il sistema retributivo per il personale in questione come contraltare alla mancata attuazione della previdenza integrativa.
La proposta
Per le due sigle sindacali, pertanto, occorre «un nuovo percorso» per individuare una «previdenza dedicata» ma non complementare nella forma sinora conosciuta; che intervenga piuttosto sul meccanismo di calcolo della pensione pubblica obbligatoria.
Il riferimento è all’ipotesi di utilizzare, nel caso di pensionamento di vecchiaia, il coefficiente di trasformazione riferito all’età anagrafica prevista per il trattamento di vecchiaia della generalità dei dipendenti pubblici (cioè 67 anni), anziché quello, ben inferiore, legato all’età dell’assicurato al momento della decorrenza del trattamento che, di regola, il personale consegue a 60 anni (salvo eccezioni). Aumento, pertanto, che avvantaggerebbe soprattutto gli iscritti privi di contribuzione al 31.12.1995 senza mettere in discussione i diritti acquisiti: sei scatti, «moltiplicatore della base pensionabile» e trattamento di fine servizio.
E per un intervento legislativo i tempi sarebbero maturi. La legge di bilancio per il 2022, infatti, ha previsto un fondo presso il Ministero dell’economia e delle finanze per la realizzazione di interventi perequativi di natura previdenziale per il personale delle Forze armate, delle Forze di polizia e del Corpo nazionale dei vigili del fuoco dotato di 20 milioni di euro per l’anno 2022, 40 milioni di euro per l’anno 2023 e 60 milioni di euro a decorrere dall’anno 2024. Risorse che, concludono le sigle sindacali, potrebbero essere destinate ad un intervento proprio in tal senso.