Non può sussistere responsabilità disciplinare in capo al dipendente che non sente il campanello e non apre la porta al medico dell’INPS perché intento a «farsi la doccia», dal momento che una condotta del genere non è affatto contraria agli obblighi di diligenza, correttezza e buona fede e non integra inadempimento contrattuale. Questo è quanto si legge nell’ordinanza n. 22404/2022 con cui la Suprema Corte ha rigettato il ricorso di un datore di lavoro condannato, in secondo grado di giudizio, a ritirare il provvedimento disciplinare adottato nei confronti di un dipendente. La pronuncia ribalta tra l’altro il precedente orientamento, seppur datato, che lo definiva «motivo non apprezzabile» (ex multis Cass. sent. n. 4216/1997 del 14.5.1997).
Ecco quindi che le esigenze indifferibili del vivere quotidiano, come quella di lavarsi, si aggiungono così all’elenco delle scuse valevoli in caso di assenza alla visita fiscale. Si rammenta, infatti, che non sono da ritenersi valide giustificazioni tutte quelle circostanze risolvibili dal lavoratore con la normale diligenza (es. campanello rotto, scarso udito del dipendente, impossibilità deambulazione etc.).
La questione
La pronuncia in parola prende le mosse dal ricorso presentato da una clinica avverso una sentenza della Corte d’Appello di Milano. La pronuncia, che confermava quanto stabilito in primo grado, aveva annullato la sanzione disciplinare in capo ad un dipendente risultato assente alla visita fiscale e aveva condannato la clinica a corrispondere il compenso sospeso a seguito dell’irrogazione della sanzione (indennità di sala operatoria). Ed infatti il lavoratore, secondo quanto accertato in sede giudiziale, al momento della visita di controllo non aveva sentito suonare il campanello di casa perché «sotto la doccia» e solo per questa ragione il medico fiscale non era potuto entrare in casa. Peraltro il lavoratore si attivato immediatamente, manifestando la propria presenza e dando piena disponibilità ad un secondo tentativo, ma invano.
A sostegno del proprio ricorso il datore di lavoro sostiene che il mancato rispetto della reperibilità costituisce inadempimento contrattuale sanzionabile in sé, ossia a prescindere dalla presenza o meno dello stato di malattia, perché il lavoratore ha nei confronti del datore un dovere di cooperazione e pertanto, anche nel domicilio, è tenuto ad astenersi da condotte che impediscano l'accesso al medico della struttura pubblica.
La decisione
Anche in secondo grado, come nel primo, il giudice aveva dato ragione al lavoratore. Deve essere esclusa la rilevanza disciplinare della condotta perché non risultano violati gli obblighi esigenza e di esecuzione del contratto secondo buona fede, imposti dagli artt. 2104 e 2106 cod. civ. La Corte di Cassazione ratifica quanto deciso nel merito e rigetta il ricorso del datore di lavoro. In particolare, si legge nelle conclusioni della sentenza, «l'obbligo di cooperazione che grava sul lavoratore in malattia, pur rilevando anche sul piano contrattuale del rapporto di lavoro, non può essere esteso fino a ricomprendere il divieto per il lavoratore medesimo di astenersi dal compiere qualsiasi atto del vivere quotidiano, normalmente compiuto all'interno delle pareti domestiche».