La questione, come noto, riguarda la definizione dell'aliquota di rendimento per la determinazione della quota di pensione calcolata con le regole retributive, per gli assicurati che al 31.12.1995 avevano meno di 18 anni di contributi e che, pertanto, risultano destinatari di un sistema di calcolo di tipo misto. Attualmente vale la pena di ricordare che sono almeno tre gli orientamenti che si stanno susseguendo nei giudizi innanzi alla Corte dei Conti; vertono sull'esegesi dell'articolo 54 del citato DPR secondo il quale "la pensione spettante al militare che abbia maturato almeno quindici anni e non più di venti anni di servizio utile è pari al 44 per cento della base pensionabile".
Il primo, meno favorevole per gli assicurati e da sempre seguito dall'Inps e dal Ministero della Difesa, interpreta la disposizione sopra richiamata nel senso che il militare che cessa il servizio con più di 20 anni di servizio utile abbia diritto ad una aliquota di rendimento del 2,33% per ogni anno di servizio sino al 15° e dell'1,8% dal 15° al 20°, esattamente come per il personale civile dello Stato (art. 44 DPR 1092/1973). La specificità di cui all'articolo 54 consisterebbe, rispetto al personale civile, nel fatto di attribuire l'aliquota del 44%, in via eccezionale, al personale che al momento dell'andata in pensione abbia maturato complessivamente una anzianità compresa tra 15 e 20 anni e sempre che la pensione risulti liquidata interamente con le regole di calcolo retributive, vigenti all'epoca dell'adozione del DPR 1092/1973. Secondo l'Inps si tratta prevalentemente dei congedi dovuti ad infermità a cui la disposizione richiamata, in funzione perequativa, consentiva l'aggancio di un trattamento più favorevole nei confronti di coloro che non avevano raggiunto i 20 anni di servizio e dunque il minimo del 44% di pensionabilità previsto dal citato DPR. La tesi è condivisa solo da parte della giurisprudenza della Corte dei Conti.
Il secondo orientamento, prevalente nelle Corti dei Conti e confermato anche dalla predetta sentenza 422/2018, interpreta tale norma nel senso di applicare l'aliquota maggiorata del 44% in corrispondenza dei 15 e 20 anni di servizio a prescindere dal servizio maturato al momento del congedo. In tal senso le anzianità inferiori al 15° anno sarebbero valorizzate al ritmo del 2,33% l'anno per poi schizzare al 44% in corrispondenza del 15° anno e restare ferme sino al 20° anno. Tale orientamento consentirebbe, pertanto, anche al personale cessato con 35 o 40 anni di servizio di ottenere l'aliquota di rendimento del 44% se al 31.12.1995 abbia raggiunto almeno 15 anni di servizio, con un evidente e significativo incremento della parte retributiva della pensione.
C'è infine un terzo orientamento minoritario ma ancora più favorevole agli interessati che è sorto sulla base di una ulteriore evoluzione delle precedenti pronunzie. E che, peraltro, neanche può essere biasimato. Questa tesi sostiene che dato che in corrispondenza del 15° anno di servizio effettivo debba applicarsi l'aliquota di rendimento del 44% il coefficiente di rendimento debba essere del 2,93% l'anno e non del 2,33% per ogni di servizio utile per i primi 15 anni, per poi arrestarsi tra il 15° ed il 20° anno. In tal caso i benefici sulla pensione si estenderebbero anche a coloro che al 31.12.1995 avevano meno di 15 anni di servizio, dunque a tutti gli arruolati sino al '95, che possono cioè, vantare anzianità da valorizzare con il sistema retributivo.
Questo contrasto di visioni tra le stesse giurisdizioni della Corte dei Conti, che ormai sta andando avanti da alcuni anni, apre le porte a qualsiasi risvolto per i lavoratori e allontana la possibilità di addivenire ad una posizione unitaria. E soprattutto crea disparità di trattamento tra lavoratori. Sarebbe, pertanto, auspicabile una norma di interpretazione autentica da parte del Legislatore.