Un paio di settimane fa il Consiglio dei Ministri ha approvato il DEF con numeri e previsioni che, per quanto riguarda l’ambito previdenziale, rivelano un sistema pensionistico sempre più in affanno e con costi sempre più difficili da sostenere. Nonostante da alcuni anni siano state approvate misure sempre più rigide, tra cui l’ultima versione di Quota 103 con il calcolo contributivo, il costo delle pensioni in Italia continua ad aumentare in maniera esponenziale.
Del resto, i numeri parlano chiaro con costi che già quest’ano saranno di 337,4 miliardi e che aumenteranno del 2,4% nel 2025 (345,7 miliardi) del 3,1% nel 2026 (356,3 miliardi) e del 3,3% nel 2027 (368,1 miliardi) con un’incidenza sul PIL di oltre il 15%. La Ragioneria Generale dello Stato, poi, quella che ha stoppato l’anticipo del Tfs agli statali per mancanza di fondi, si è spinta oltre affermando che il costo della previdenza in Italia aumenterà progressivamente raggiungendo il 17% del PIL nel 2040.
Gli aumenti dei costi della previdenza causati soprattutto dall’inflazione e dal numero delle pensioni determinato dall’aumento dell’aspettativa di vita metteranno in crisi il sistema che tra una ventina d’anni potrebbe andare in tilt. Il nostro sistema a ripartizione per essere in equilibrio abbisogna che ci siano molti lavoratori che versano contributi e meno pensionati ed inoltre che gli assegni previdenziali siano corrisposti per non più di venti/venticinque anni. Con la drastica denatalità che attanaglia l’Italia ormai da oltre trent’anni e dove non si potrà invertire radicalmente la rotta perché ormai è assodato che in tutto il mondo occidentale le famiglie mettono al mondo uno o al massimo due figli questo sistema a ripartizione non consentirà più a tutti di avere una pensione adeguata alle necessità della vita una volta terminato il percorso lavorativo. Con oltre ventidue milioni di pensioni erogate ogni anno dall’INPS, una natalità che continuamente fa record negativi (nel 2023 appena 380.000 nuovi nati) e con un’aspettativa di vita (83,1 anni) che pone l’Italia al secondo posto nel mondo e che costantemente aumenta non ci vuole molto a capire che questo sistema tra una ventina d’anni rischia di implodere con enormi problemi di ordine sociale.
Si poteva sopperire a tutto ciò con la previdenza complementare che però in Italia stenta a decollare con appena il 36% di adesioni contro l’84% della Germania e il 93% dei Paesi Bassi, ma questo istituto, pur se presente nell’ordinamento italiano da vent’anni per una scarsa educazione finanziaria, a causa di stipendi bassi, poca attenzione da parte dei Governi che non l’hanno mai implementata con maggiore deducibilità e minore tassazione e per motivi ideologici non riesce a far breccia nelle menti delle giovani generazioni.
A questo punto non rimane che cominciare a discutere di una forma mista di previdenza costituita da ripartizione e capitalizzazione perché non è più possibile che l’enorme somma dei versamenti contributivi previdenziali effettuati ogni anno dagli italiani non venga investita ma soltanto destinata a pagare le pensioni a chi è già pensionato.
Una riflessione, infine, andrebbe poi fatta sul discorso dei robot e dell’intelligenza artificiale e su come introdurre una tassazione, almeno parziale, su questi strumenti che stanno stravolgendo il lavoro umano.
Come si vede, quindi, è necessario cambiare completamente il modo di affrontare il nodo della previdenza in Italia per evitare, come affermato anche dalla Presidente Meloni, che questo problema nei prossimi decenni generi uno scontro sociale. La nostra classe dirigente politica troppo interessata al consenso immediato sarà in grado di affrontare queste nuove sfide che la società in continua evoluzione ci impone?