Il Consiglio dei Ministri ha licenziato nei giorni scorsi la manovra economica 2025 che ai primi di novembre comincerà l’iter parlamentare per l’approvazione finale entro la fine dell’anno. È una manovra piuttosto “leggerina” che in ambito previdenziale non porta alcun cambiamento significativo.
Da quello che è emerso, al momento infatti manca ancora una bozza ufficiale, l’impianto della previdenza in Italia si poggerà ancora stabilmente sulla legge Fornero, verranno confermati per l’anno 2025 i tre istituti di Quota 103, Ape Sociale e Opzione Donna in scadenza a fine anno nella versione attuale e verranno implementate, ma ancora non si conoscono i termini precisi, le misure per far rimanere sul posto di lavoro i lavoratori che hanno già raggiunto i termini per il pensionamento.
Il Governo, in pratica, a causa della situazione economica attuale e della solita mancanza di fondi, prende tempo e rimanda ulteriormente la riforma previdenziale, spostando “entro il termine della legislatura” un impegno preso con gli elettori ma, soprattutto, quella che è diventata ormai una necessità non più rinviabile.
Sembra completamente sparito dai radar dell’Esecutivo il “mantra” della Lega che prometteva lo scardinamento della Legge Fornero con l’istituzione della Quota 41 indipendentemente dall’età anagrafica per poter accedere al pensionamento. Anche la cd. Quota 41 Light con il calcolo contributivo è stata accantonata. D’altro canto da quest’anno sono stati già inaspriti alcuni canali di accesso istituiti proprio dalla Legge Fornero. In particolare la possibilità, per i lavoratori privi di anzianità contributiva al 31 dicembre 1996, di incrociare le braccia all’età di 64 anni unitamente a 20 anni di contribuzione effettiva. Il Governo Meloni ha introdotto una finestra mobile trimestrale (prima assente); ha innalzato l’importo soglia da 2,8 volte a 3 volte il valore dell’assegno sociale e, soprattutto, ha introdotto un tetto all’importo della prestazione non superiore a cinque volte il trattamento minimo INPS sino al raggiungimento dell’età di vecchiaia (67 anni). Questo nonostante si tratti di una prestazione interamente calcolata con il sistema contributivo.
Per il 2025 il Governo ha scelto il modo più facile di operare, promettendo un pacchetto di misure per incentivare volontariamente la permanenza al lavoro per chi ha già i requisiti del pensionamento intervenendo sulla detassazione dei redditi e cercando di implementare la previdenza complementare con un altro semestre di silenzio/assenso per rilanciare un istituto che in Italia stenta a decollare. Ma muoversi in questo modo senza coinvolgere i partiti di opposizione, le rappresentanze sindacali e datoriali ed esperti del settore delinea una carenza “di visione” molto preoccupante.
Per raggiungere un obiettivo così importante che possa definitivamente risolvere un problema che rischia di diventare nel futuro una bomba sociale è assolutamente necessario coinvolgere tutti gli attori per realizzare in alcuni mesi una riforma che non può essere compressa nella legge di bilancio con pochi interventi unilaterali approvati quasi senza confronto. Partendo dal presupposto che non tutti i lavori sono uguali, un impiegato non può essere paragonato ad un lavoratore dell’edilizia o dell’agricoltura, deve essere differenziata l’età del pensionamento in base ai mestieri svolti. Sarà inoltre indispensabile separare la previdenza dall’assistenza, dare attenzione ai giovani che hanno lavori frammentati e discontinui e che secondo l’Ocse saranno costretti a lavorare ben oltre i 70 anni e considerare in maniera diversa il lavoro che svolgono le donne da sempre il vero welfare in Italia.
Solo così si potrà affrontare una problematica complessa che interessa tutti, e non solamente chi sta andando in pensione, e non avendo paura di interpretare i cambiamenti attuare una reale riforma previdenziale che da una parte salvaguardi i conti dello Stato e dall’altra dia certezze durature ai cittadini.