È per questo, sottosegretario, che per sostenere la causa parla non di costi ma addirittura di risparmi? «No, dico questo perché per garantire l’equilibrio del sistema non bisogna guardare solo all’oggi ma anche al domani e ai giorni che vengono dopo. Tuttavia è chiaro: se nel medio-lungo periodo la flessibilità porta risparmi, nell’immediato dei costi ci sono. Ma possono essere sostenibili, del tutto sostenibili».
Il presidente dell’Inps, Tito Boeri, dice che la vostra proposta costerebbe 8,5 miliardi di euro l’anno. Mica tanto sostenibile. È più del doppio di quanto serve per togliere Tasi e Imu sulla prima casa. «Quei numeri sono esagerati. Danno per scontato che tutte le persone deciderebbero di andare in pensione prima e che sfrutterebbero anche il massimo anticipo possibile. Irrealistico».
Però possibile, almeno in teoria. E quindi bisogna tenerne conto. «Bisogna fare una valutazione non solo statistica ma sociale. Alcuni resterebbero comunque al lavoro, non utilizzando affatto la flessibilità. Altri ancora la sfrutterebbero ma non al massimo, lasciando uno o due anni prima, non quattro. E poi la stima di Boeri non tiene conto di altri risparmi indiretti. Con la flessibilità avremmo meno esodati, per i quali finora abbiamo speso oltre 11 miliardi di euro. E avremmo anche meno lavoratori con la cassa integrazione in deroga, per la quale ogni anno lo Stato sborsa 2,5 miliardi».
Alla fine quale sarebbe il costo netto dell’operazione? «Meno della metà rispetto a quanto indicato da Boeri».
Quattro miliardi, dunque. Sempre troppo, non crede? «No, sono anche meno. Comunque proprio per questo stiamo studiando una serie di meccanismi per abbassare ulteriormente il costo».
Si riferisce al taglio progressivo: una riduzione dell’assegno non più pari al 2% per ogni anno di anticipo, come nella sua proposta iniziale, ma che cresce più velocemente: il 5% dopo due anni, l’8% dopo tre? «È una delle idee sul tavolo ma ce ne sono anche altre».
E quali? «Si potrebbe legare il taglio dell’assegno al livello del reddito: se prendi una pensione da 1.500 euro, dico per dire, ti taglio il 2%, se ne prendi 2.500, a parità di altre condizioni, ti taglio un po’ di più. Oppure si potrebbe introdurre la flessibilità in modo graduale».
Che cosa vuol dire? «Nel 2016 consenti di uscire con un anno di anticipo, nel 2017 con due anni di anticipo, nel 2018 sali fino a tre. E così via».
A quanto scenderebbe il costo con queste misure? «Dipende dal mix finale delle misure: potremmo usarne alcune o anche tutte insieme. Indicare un numero adesso è impossibile. Ma sono certo che si possa scendere ad un livello compatibile con le esigenze di bilancio».
La vostra proposta iniziale prevedeva anche l’altra faccia della medaglia: una pensione più ricca per chi va in pensione dopo i 66 anni. Non ci sono speranze, giusto? «E perché mai? Parliamo di lavoratori del settore privato, andando in pensione più tardi farebbero risparmiare soldi allo Stato. Ma naturalmente anche l’azienda dovrebbe essere d’accordo, perché ci può essere un problema di efficienza». Gamsin Lei dice che la flessibilità nell’immediato potrebbe costare poco e nel medio periodo potrebbe far risparmiare spese allo Stato. È questo il vero motivo per cui il governo sembra aver cambiato rotta ed ora è disposto a ragionarci sopra. «No, il vero punto è il lavoro. Aver alzato l’età della pensione era inevitabile perché l’aspettativa di vita, per fortuna, è diventata più lunga. L’errore è stato averlo fatto dalla sera alla mattina e in modo uguale per tutti, come per una sorta di malinteso egualitarismo. Il risultato è sotto gli occhi di tutti: abbiamo creato una barriera all’ingresso dei giovani nel mercato del lavoro».
C’è chi pensa che questa sia una visione antica, che considera il lavoro come un recinto chiuso, dove si entra solo se qualcuno esce, e non come qualcosa da creare giorno dopo giorno. Non è d’accordo? «Certo, il lavoro va creato giorno dopo giorno. Ma se tutti restano in ufficio fino a 66 anni gli unici posti disponibili sono quelli aggiuntivi. E sappiamo bene come sia difficile averne di questi tempi. Un po’ di sostituzione tra anziani e giovani serve. Altrimenti il sistema non tiene».
Baretta ricorda comunque che la flessibilità produrrebbe una serie di risparmi che dovranno essere messi in conto. Come il superamento definitivo dell'affaire esodati, le risorse per la cassa integrazione e quelle per garantire un sostegno al reddito per chi ha perso il lavoro ed è troppo lontano dal requisito fornero. «Questo problema è esploso nel giro di due anni e mezzo e per affrontarlo sono state utilizzate risorse per oltre 11 miliardi. Con la flessibilità il problema sarebbe stato di dimensioni molto più contenute" precisa il Sottosegretario.