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Nel settore pubblico il decreto Poletti si applica nei limiti in cui questo è compatibile con la disciplina indicata nel Dlgs 165/2011.

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Com'è noto dal 21 marzo 2014 è entrato in vigore il Dlg 34/2014 che ha riformato la disciplina del contratto a Tempo determinato. Le principali innovazioni sono ormai chiare a tutti. Il provvedimento, che sta suscitando diverse reazioni politiche, ha provveduto all'abolizione della causale per la sottoscrizione di contratti di lavoro a termine; ha introdotto un tetto massimo pari al 20 % dell'organico complessivo dell'azienda del numero dei rapporti di lavoro a termine che possono essere stipulati, ( limite che tuttavia non opera in confronto delle aziende con meno di 5 dipendenti per le quali viene sempre prevista la possibilità per il datore di stipulare un Contratto di lavoro a termine); ed ha precisato che il contratto a tempo può essere prorogato di otto volte sino ad un massimo di 3 anni a condizione tuttavia che le parti si riferiscano alla medesima attività lavorativa per la quale il contratto è stato originariamente stipulato.

Gabriella Martini, dell'ordine dei Consulenti del Lavoro, ricorda tuttavia che le innovazioni portate dal Dl 34/2014 non hanno grandi effetti per quanto riguarda il settore del Pubblico Impiego, settore in cui restano in vigore le disposizioni di cui all'articolo 36 del Dlgs 165 del 2001.

"Nel settore pubblico resta ferma la possibilità di ricorrere a forme contrattuali flessibili di impiego del personale per rispondere ad esigenze di carattere esclusivamente temporaneo o  eccezionale. Di conseguenza nel Settore Pubblico, nonostante l'introduzione della nuova normativa, resta sempre necessaria l'indicazione della causale nella stipula di Contratti a tempo determinato".

Per quanto riguarda invece il tetto massimo di Contratti a tempo determinato fissato con il 20% di organico "anche tale misura non pare essere compatibile con il Settore Pubblico in quanto, anche se è vero che sussiste un richiamo generico ai Contratti Collettivi di lavoro, questo limite è troppo elevato e ciò potrebbe favorire forme di abuso a discapito dei lavoratori".

In definitiva l'unica novità del Decreto Poletti che risulta compatibile con il Settore Pubblico è quella relativa alla possibilità di prorogare fino ad otto volte il Contratto a tempo determinato sempre rispettando il limite massimo di 36 mesi a condizione che non vi sia abuso.

I dirigenti della Pubblica Amministrazione non potranno guadagnare più del Capo dello Stato. Dal tetto agli stipendi sono attesi risparmi per 500 milioni.

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Renzi accelera sull'idea di introdurre il principio in base al quale nessuno nella Pubblica Amministrazione può guadagnare più del Capo dello Stato. Nel Cdm di ieri che ha licenziato il DEF il premier ha confermato che dal prossimo 18 Aprile sarà introdotto un nuovo tetto ai stipendi dei manager pubblici pari a 239mila euro lordi annui, la retribuzione lorda del Capo dello stato. Secondo indiscrezioni potrebbero anche essere introdotti tetti differenziati e via via decrescenti per ogni figura dirigenziale della Pubblica Amministrazione.

Secondo le cifre del MEF, i risparmi per lo Stato si attesterebbero almeno sui 400milioni l'anno se il tetto allo stipendio passasse dai 311.658,53 euro lordi all'anno previsti oggi, ai 239.181 euro riconosciuti al Capo dello Stato. Una sforbiciata di oltre il 20% che funzionerà da effetto domino travolgendo verso il basso tutto il sistema delle retribuzioni dirigenziali.

Dovrebbero essere introdotti anche limiti via via discendenti per Capi dipartimento (190mila euro), Dirigenti di prima fascia (120mila euro) e per quelli di seconda fascia, che dovrebbero attestarsi verso i 70-80 mila euro annui. Il premier è determinato a continuare la sua offensiva contro gli sprechi della Pubblica Amministrazione e contro i privilegi della politica: «Non ci saranno più santuari, dopo il Senato e le Province taglierò anche doppioni ed enti inutili», garantisce Renzi che ha inquadrato nel mirino le sei-settemila aziende municipalizzate (garantiscono circa 80 mila poltrone a politici e amici dei politici), l’Aci e la Motorizzazione, i Consorzi di bonifica di cui è costellata la Penisola.

Indipendentemente dall'esito della Riforma, il meccanismo ideato dovrebbe colpire quasi tutti i dirigenti pubblici, a partire dagli Enti pubblici non economici (Inps, Aci, Istat) dove lo stipendio medio dei dirigenti di prima fascia è abbondantemente oltre i 200mila euro, e quello della seconda fascia si attesta a 135mila euro. Nei Ministeri gli importi si collocano invece fra i 187mila euro medi della prima fascia e gli 88mila euro della seconda, che salgono a 96mila per Palazzo Chigi.

La quota di pensione che consente di raggiungere il livello minimo non è esportabile da parte dei titolari che trasferiscono la propria residenza in uno stato dell'Unione europea.

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L'Inps con il messaggio n. 3770/2014, in risposta alle numerose richieste di chiarimenti sull'argomento da parte dei propri uffici periferici ha precisato che la quota di pensione che consente di raggiungere il livello minimo,  pari a 501,38 euro non è esportabile da parte dei titolari che trasferiscono la propria residenza in uno stato dell'Unione europea.

Attualmente infatti il calcolo della pensione con il sistema retributivo viene determinato sulla base del numero degli anni di contributi e della cosiddetta retribuzione pensionabile, ossia la media degli stipendi percepiti nell'ultimo periodo di lavoro (o degli ultimi redditi dichiarati al Fisco per i lavoratori autonomi).

L'importo della rendita risulta pari a un 2% della retribuzione pensionabile, per ogni anno di contributi. Quando l'importo calcolato sulla base della contribuzione effettivamente versata risulta inferiore a una certa cifra (il minimo stabilito dalla legge) si procede alla cosiddetta integrazione, che rappresenta quindi la differenza, a carico dello stato, tra la quota effettivamente maturata e la soglia stabilita.

Le condizioni richieste affinché scatti l'integrazione sono due: il richiedente la pensione non deve avere altri redditi Irpef di importo superiore al doppio del minimo; il reddito complessivo della coppia (pensionato e relativo coniuge) non deve superare l'importo annuo di 4 volte il minimo.

L'art.70 del regolamento (Ce) n. 883/2004 disciplina le «prestazioni speciali in denaro di carattere non contributivo» aventi caratteristiche sia  delle prestazioni assistenziali che di quelle previdenziali. Tali prestazioni, se elencate nell'allegato X del regolamento , sono inesportabili negli stati membri e, quindi, vengono erogate esclusivamente nel paese in cui gli interessati risiedono in base ai criteri previsti dalla legislazione di detto stato.

Pertanto, si legge nella nota, sono a carico dell'istituzione del luogo di residenza: gli assegni sociali, le rendite assistenziali, l'integrazione della pensione minima e le maggiorazioni sociali. Quindi i residenti in paesi entrati a far parte dell'Ue, titolari di pensione in regime nazionale o internazionale, che abbiano perfezionato i requisiti per l'attribuzione dell'integrazione al trattamento minimo prima dell'ingresso dello stato nell'Unione europea, mantengono anche dopo tale data il diritto al pagamento dell'integrazione, sempreché soddisfino i requisiti previsti dalla normativa di riferimento.

Al contrario, in applicazione del citato principio dell'inesportabilità, non potranno essere corrisposte integrazioni al trattamento minimo i cui requisiti, in particolare reddituali, si siano perfezionati in capo al titolare di pensione residente all'estero in data successiva all'ingresso dello stato nell'Unione.

Ai fini del mantenimento dell’integrazione al trattamento minimo, conclude la nota, non solo la decorrenza del trattamento pensionistico deve collocarsi anteriormente alla data di ingresso dello Stato nell’Unione europea, ma devono essere soddisfatte, prima di detta data, tutte le condizioni, previste dalla normativa nazionale, per l’attribuzione dell’integrazione al trattamento minimo.

Si riduce al 5% lo sconto Irap che sarà garantito alle imprese nel 2014 attraverso l'aumento delle rendite finanziarie. Il prossimo anno salirà al 10%.

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Nelle prossime ore il governo dovrà presentare il Def, il documento di economia e finanza che indicherà le stime e le previsioni dei conti pubblici italiani. Soprattutto indicherà quale obiettivi economici e fiscali si dovranno perseguire. E come raggiungerli, con quali coperture.

Sino ad oggi infatti le dichiarazioni di Renzi sul taglio delle tasse sull'Irpef e per l'Irap non hanno ancora alcun fondamento. E' proprio l'Irap però preoccupa maggiormente il premier Matteo Renzi: nella conferenza stampa di metà Marzo il premier aveva infatti annunciato dal primo maggio un taglio del 10% dell'odiosa tassa sulle imprese. Misura coperta con l'innalzamento della pressione fiscale sulle rendite finanziare con l'aliquota che, dal 20 per cento, arriverà al 26. Ma dato che la nuova aliquota entrerà in vigore dal 1° Luglio (tecnicamente non è possibile introdurla prima) la misura non sarà in grado di coprire completamente lo sconto. Per cui è sempre piu' probabile la possibilità che il taglio per il 2014 si attesterà solo al 5% per poi raddoppiare al 10% nel 2015.

Minori problemi invece per garantire lo sconto delle tasse da fine maggio che porterà 80 euro in piu' nella busta dei lavoratori con redditi fino a 25 mila euro lordi l'anno. L'operazione vale circa 6,6 miliardi di euro per gli 8 mesi del 2014 e 10 miliardi a regime.

L'intervento sarà coperto quasi integralmente attraverso la spending review e con l'eliminazione degli enti inutili tra cui potrebbero anche rientrare le Camere di Commercio, Aci, Motorizzazione, municipalizzate, consorzi di bonifica.

Nella Sanità non ci sarà il taglio da 2,5 miliardi ma piuttosto tagli selettivi, con l'introduzione dei costi standard e un risparmio stimato che può avvicinarsi anche al miliardo.

Quanto alle modalità dello sconto Irpef bisogna attendere il provvedimento definitivo, probabilmente un decreto legge entro Pasqua. Il meccanismo più probabile per il Tesoro resta quello delle detrazioni in busta paga, con paletti e condizioni ben precise.

Il massimo guadagno per i lavoratori sarà in corrispondenza dei redditi attorno ai 25 mila euro annui per poi esaurirsi oltre i 30 mila. A Palazzo Chigi, resta ancora sulla carta l'ipotesi di una de-contribuzione tramite l'Inps per spalmare l'aiuto anche sui redditi bassissimi

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Secondo il direttore generale dell'Inps, Mauro Nori, è possibile ricalcolare gli assegni oltre un determinato importo attraverso il sistema contributivo: 16 milioni i potenziali interessati ma per Nori si possono scegliere anche solo quelle piu' ricche.

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Secondo il Direttore Generale,  è possibile procedere al ricalcolo delle pensioni con il sistema contributivo. E' quanto ha affermato davanti alla commissione Lavoro di Montecitorio alcuni giorni fa presieduta dall'ex ministro del Welfare, Cesare Damiano. Nori ha detto che sarebbe possibile ricalcolare con il sistema contributivo tutte le pensioni in essere anche se la procedura è complessa e richiederà l'impiego di tutte le risorse umane e tecnologiche dell'Istituto. Insomma dovrà valerne la pena e dovrà esserci una precisa volontà politica.

La complessità deriva dal fatto che per i periodi antecedenti al 1995 per il pubblico impiego manca una banca dati unica in quanto ciascun ente procedeva al pagamento delle prestazioni in proprio. «Me se il governo o il Parlamento lo vorranno,» si potranno spostare risorse dell'Inps (personale e fondi), per elaborare uno studio statistico e scoprire quanto spetterebbe veramente ricalcolando con il contributivo e non piu' con il generoso sistema retributivo.

In pratica significa andare a spulciare oltre 16 milioni di singole posizioni di pensionati per colpire chi oggi percepisce un assegno piu' generoso rispetto ai contributi versati. Se è vero che per il settore privato il calcolo è semplice e fattibile, ha puntualizzato Nori, "siamo in grado di effettuare con sufficiente ottimismo il ricalcolo contributivo di tulle le pensioni", in quanto esiste una serie storica dei singoli versamenti, per il comparto pubblico si è sempre saputo che ciò fosse impossibile in quanto difficile ricostruire la carriera del lavoratore.

E' solo un'ipotesi, ci mancherebbe, ma è di quelle che potrebbero far accapponare la pelle a milioni di persone perchè, accertato che con il vecchio sistema retributivo (calcolato sugli ultimi 5 anni di attività), si incassa una pensione ben piu' generosa, passare al retributivo (solo versamenti effettivi e rendimenti cumulati), vorrebbe dire perdere una buona parte del trattamento.

A rischio, in realtà, non sarebbero tutti i 16 milioni di pensionati, ma solo quelli che percepiscono trattamenti piu' elevati (oltre i 7-8 mila al mese) per i quali il "bonus" pesa maggiormente ed il vantaggio è piu' indifendibile in un momento di crisi economica generale; sempre che un simile intervento, se approvato, possa passare indenne da un esame della Consulta.

Il sistema retributivo regala un bonus ai fortunati detentori di queste pensioni fino al 34%, che sale proporzionalmente all'aumentare della retribuzione. In pratica, oltre un terzo della pensione è regalata. Un bel vantaggio che tuttavia appare sempre piu' difficile politicamente da difendere in un periodo di vacche magre come quello odierno.

Secondo il dossier elaborato dal servizio studi della Camera per le pensioni dei lavoratori dipendenti privati maturate dopo il 2008 pari a 12 miliardi di spesa, almeno 3 miliardi non corrispondono ai contributi effettivamente pagati dai lavoratori. E' il prezzo del "regalo". Valori che tuttavia non tengono conto dei dipendenti pubblici per i quali anche la Camera ha dovuto arrendersi.

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